“Il coraggio di navigare in mare aperto”. La relazione introduttiva di Federico Antonelli

PACE, LAVORO, DIRITTI, SALARIO – Milano, 22 e 23 febbraio 2024
23 febbraio, Assemblea nazionale ‘Lavoro Società’ in FILCAMS-CGIL
“Un’aggregazione per far crescere la linea sindacale di classe in Cgil”


Relazione introduttiva di Federico Antonelli

“Il coraggio di navigare in mare aperto”. La relazione introduttiva di Federico Antonelli

 

Buongiorno compagni e compagne,

ci ritroviamo a Milano a due anni di distanza dal seminario di Perugia del 2022.

Ai nostri lavori oggi partecipano compagne e compagni che provengono da Lombardia, Veneto, Toscana, Campania, Basilicata, Puglia, Sardegna e Umbria. Una rappresentanza grande che ci riempie di orgoglio e ci responsabilizza. Oggi ripeto un concetto già espresso due anni fa, che sta al cuore della nostra azione: il lavoro che Lavoro Società mette in campo in ogni occasione è frutto di un lavoro di squadra, che senza l’impegno collettivo non potrebbe mai realizzarsi.

Ognuno di voi è per me sostegno e pungolo: non cito nessuno ma sentitevi tutti coinvolti nel ringraziamento per la realizzazione di queste due giornate, impegnative e pesanti, ma ricche di soddisfazione oggi che siamo qua, tutti assieme.

Il primo ringraziamento va alla FILCAMS CGIL di Milano, a Marco che ha portato il saluto della categoria. Grazie Marco. Così come un ringraziamento altrettanto sentito va alla Camera del lavoro e a Enzo che ha portato il saluto della mia Camera del Lavoro.

Ai nostri lavori partecipano diverse compagne e diversi compagni che militano nelle altre categorie della nostra confederazione, che a noi fanno riferimento o a noi guardano con simpatia ed interesse. In rappresentanza di tutti ringrazio della partecipazione Leopoldo Tartaglia e Giacinto Botti, rispettivamente responsabile della nostra bella rivista Sinistra Sindacale e il nostro coordinatore nazionale.
La presenza ed il saluto che ci ha portato Massimo Frattini, amico e compagno che in IUF segue il settore degli alberghi e del turismo e che conosciamo tutti bene è per me speciale. Lui offre ogni volta un contributo ai nostri lavori. Voglio ricordarlo: lui per me non è solo un bravo compagno. Grazie Massimo amico mio, di essere qua con noi.

Naturalmente un ringraziamento speciale va come sempre alla Filcams Nazionale , in particolare a Giulia Burgese e alle  compagne e ai compagni del CeMu che ci permettono di organizzare questo nostro appuntamento: Francesca Albonico, che da sempre con il suo lavoro fa funzionare al meglio le nostre iniziative,  Carlotta Chiari e Andrea Procaccino che in questa occasione l’hanno affiancata.
Non l’ho citato fino ad ora, ma ringrazio della sua presenza ai nostri lavori il nostro Segretario generale Fabrizio Russo. Fabrizio, ti ho visto crescere lungo tutto il tuo percorso nella FILCAMS, da giovane funzionario a segretario generale nazionale. E’ un grande onore e piacere averti qua con noi, aspettiamo tutti il tuo contributo ai nostri lavori.

Voglio ringraziare anche i nostri ospiti che, con i loro contributi, ci aiuteranno nella discussione, offrendoci conoscenza e spunti di riflessione: il Dottore Nicola Quandomatteo, il professore Emiliano Brancaccio e Claudio Treves, figura storica della segreteria della FILCAMS, un compagno di grande valore che noi tutti stimiamo e a cui vogliamo anche molto bene.

Chiudo i ringraziamenti iniziali con Andrea Montagni: lo sapete per me Andrea è non solo un compagno con il quale ho lavorato nella struttura nazionale, ma è anche un amico, un fratello maggiore con cui mi confronto, parlo, discuto, faccio grande palestra di pazienza (tanta pazienza) e mi diverto. Questi due giorni sono anche il frutto di questa nostra passione comune per la CGIL, per il sindacato, per le lavoratrici e i lavoratori che rappresentiamo e per la nostra aggregazione programmatica di Lavoro Società.

In questo lungo preambolo di ringraziamenti, spero, mi perdonerete una piccola nota personale: essere oggi su questo palco, il salone Di Vittorio della Camera del lavoro è un’emozione speciale. Milano, la mia città, è sempre nel mio cuore e nelle mie vene, e la Camera del lavoro è un luogo speciale per la città e per la mia vita: è il luogo dove sono cresciuto, ho imparato ad essere un sindacalista e ho imparato ad amare e rispettare la mia organizzazione. Ho imparato molto: ho imparato che il sindacato è il luogo in cui problemi individuali diventano collettivi. Ho imparato a comprendere la dimensione confederale della CGIL, senza la quale diventeremmo un soggetto sociale portatore solo di valori particolari, limitati alla singola realtà aziendale o settoriale. Una visione limitata del lavoro che ci renderebbe più deboli. Grazie a questa camera del lavoro ho avuto la possibilità di lavorare su me stesso crescendo, imparando e studiando. Vivendo esperienze che mi hanno cambiato, dandomi maggiori strumenti di conoscenza e portandomi oggi a scrivere e leggere questa relazione di fronte a voi: non dimentichiamo mai che il sindacato è strumento nelle mani delle lavoratrici e lavoratori per migliorare la loro condizione materiale di vita, ma è anche il luogo dove queste lavoratrici e questi lavoratori possono arricchire la propria cultura, modificare il proprio ruolo, assumere responsabilità. Lo sviluppo della persona in termini collettivi, sociali ed individuali: questo è uno dei nostri obiettivi di base, qua sta il nostro passato, il nostro presente ed il nostro futuro.

In questa camera del lavoro ho anche avuto modo di incontrare un uomo, un sindacalista, che ha fatto la storia della CGIL, della FILCAMS e della Sinistra Sindacale: Bruno Rastelli. Dieci anni fa esatti Bruno ci lasciava, chi lo ha conosciuto ne avverte sia la presenza che l’assenza; chi non lo ha mai incontrato deve sapere che ha perso l’occasione di confrontarsi con un grandissimo dirigente sindacale, dalle caratteristiche rare, sia sul piano umano che sindacale. Vi dico solo che se siamo qua oggi è anche per il suo lavoro e la sua volontà di dare voce a una grande Sinistra Sindacale organizzata in CGIL.

Il mondo è attraversato da un vento di guerra che spira sempre più forte. Noi in questi due giorni abbiamo scelto di partire dalla guerra: il 24 febbraio del 2022 la Russia avviò la propria campagna militare contro l’Ucraina. In questi giorni, a due anni di distanza, la situazione è peggiorata e il conflitto che fin da subito non esitammo a giudicare folle, non accenna a terminare. Intanto in Palestina la situazione è sempre più drammatica e la strage continua con la complicità della comunità internazionale. Il rischio di un conflitto mondiale dalle dimensioni inimmaginabili è concreto. Ieri abbiamo affrontato questi temi. Non voglio aggiungere altro: dico soltanto basta, tacciano le armi, ritorni la parola alla politica, al dialogo. La guerra la pagano sempre e da sempre i popoli, le persone che lavorano, le donne e gli uomini che perdono la propria vita o quella dei propri figli, sull’altare di interessi che non gli appartengono. La guerra è una follia, una catastrofe: dobbiamo partire da questo concetto prima di fare qualunque analisi, perché se non mettiamo al centro dell’azione di governo, dei governi, questo principio allora le armi non smetteranno di urlare, gli inverni saranno sempre più lunghi e freddi per le popolazioni coinvolte e la vita sempre più costosa e difficile per chi le guerre finanzia, senza volerlo, con le proprie tasse e il proprio lavoro.

Due anni fa iniziai la mia relazione citando il numero dei femminicidi e delle morti sul lavoro. Oggi non parlo di numeri perché mi ripeterei. Sono passati due anni ma sembra che il tempo sia trascorso invano e la tragica contabilità resta lì, immutabile testimone delle assurdità e delle contraddizioni del sistema che ci opprimono. Lo sfruttamento della donna, nel lavoro di cura, nel ruolo di madre e lavoratrice, nella subordinazione del ruolo di moglie non è cambiato. Lo sfruttamento del lavoro che subordina al profitto anche il costo della sicurezza continua a uccidere ogni anno nei cantieri e nelle aziende. Non voglio mettere insieme due questioni che hanno declinazioni diverse, ma voglio partire dalla contestazione di una retorica che considero insopportabile e che unisce questi due drammi: né i femminicidi, né le morti bianche sono patologie del sistema capitalista; ne sono solo i frutti amari. Se noi affermiamo che l’uccisione di una donna per mano del proprio compagno sia colpa della follia del singolo, neghiamo la radice culturale e sociale del rapporto tra l’uomo e la donna.

Se noi affermiamo che la morte di una lavoratrice o di un lavoratore sono tragiche fatalità, neghiamo che il sistema economico e produttivo vive di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Non usciremo mai da questa mistificazione, se non saremo capaci di una spinta politica e sociale nuova, diversa, continua e forte. Come è stato in occasione della manifestazione del 25 novembre scorso, quando una moltitudine di donne si sono riversate nelle strade, per ribellarsi al dramma dei femminicidi e alle contraddizioni che il sistema patriarcale ancora determina. Non so se una giornata di lotta sia sufficiente, ma quel giorno c’erano tante ragazze e anche tanti ragazzi: diamogli fiducia e sostegno; sono la migliore speranza per un futuro diverso.  

I diritti sono il metro di valutazione del grado di civiltà che stiamo realizzando e il grado di democrazia e di uguaglianza tra i generi si misura anche dal livello di partecipazione delle donne alla vita pubblica.

 In questi mesi nessuno ha osato mettere in discussione le unioni civili, certo. Il recinto regge, l'apartheid giuridico creato ad hoc per le coppie formate da persone dello stesso sesso a suo modo funziona e fa comodo resti tale, anche alla Destra che fino all’approvazione della legge Cirinnà del 2016 lo combatteva.

Fu proprio Giorgia Meloni in un comizio prima delle elezioni del 2022 a dire ad un contestatore "mi sembra che abbiate già le unioni civili". Fatevele bastare, il sottotesto nemmeno troppo velato. Attenti che potremmo pure ripensarci, l'altrettanto velata minaccia. "E di matrimonio egualitario manco a parlarne finché ci siamo noi!", sembrava dire. I diritti di serie B sono serviti.

E se i diritti civili sono il metro di valutazione del grado di civiltà che stiamo realizzando dobbiamo impegnarci e dire a chi oggi crede ci siano altre priorità, altri temi, anche tra di noi, nella CGIL, che dobbiamo continuare ad essere prima di tutto vigili e aperti nelle nostre lotte, perché nessuno si salva da solo e nessuno può essere lasciato indietro.

E prendiamo il coraggio di dire che anche la nostra organizzazione deve fare molto sul piano della parità di genere e sul rispetto dei diritti: non bastano gli strumenti statutari se poi nel quotidiano dirigenti sindacali trattano le dirigenti con sufficienza, non bastano gli strumenti statutari se capita ancora che un dirigente si possa permettere di apostrofare con parole volgari e violente una compagna, non bastano gli strumenti statutari se non sapremo interpretare nuovamente noi stessi, in un diverso e rinnovato rapporto tra i generi. Non basta scrivere certi principi nel codice etico, regole certe nello Statuto, se poi divengono carta straccia nella pratica quotidiana!

 

LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE

Il 23 febbraio del 2022, la guerra civile in Ucraina è diventata la guerra tra la NATO e la Russia, combattuta sulla pelle degli ucraini. Quella guerra è ancora in corso e coinvolge sempre più i paesi europei, Italia compresa. A gennaio l'ammiraglio Rob Bauer - uno dei caporioni militari della NATO - ha affermato che il conflitto determinerà il destino del mondo. Ma da ottobre un’altra guerra di bassa intensità si è trasformata in guerra aperta, ma guerra non è parola adatta: è un massacro!

Ieri abbiamo messo al centro della nostra prima giornata la pace “con la Palestina nel cuore”: avete sentito le amare parole di verità. Bambini, donne e uomini di Gaza e Cisgiordania ammazzati, feriti, catturati, umiliati costretti a vivere ogni giorno sotto i razzi, le bombe i fucili e i manganelli dei soldati e dei coloni.

Il popolo palestinese ha diritto all’autodeterminazione e alla Resistenza con qualsiasi mezzo contro l’occupante. Così dice il diritto internazionale, e così ci detta anche la nostra sete di giustizia e di libertà, non solo per noi ma per tutti i popoli del mondo! Agli uomini, le donne di Palestina, ai loro sindacati, ovunque siano nei campi profughi in Libano, a Gaza, nei territori “autogovernati”, nei territori occupati, nella diaspora va il nostro abbraccio fraterno, solidale e di lotta!

La situazione internazionale è sempre più complicata.

La fine del bipolarismo invece di portare, come qualcuno si era illuso, al predominio totale degli Stati Uniti, ha determinato, nel corso di questi trent’anni, una instabilità internazionale piena di pericoli. Si sono scatenate guerre di aggressione da parte degli USA e l’emergere di nuove potenze regionali, che cercano di farsi spazio, ha generato una nuova contrapposizione sistemica tra USA e Cina. Dentro questa crisi politica internazionale ci siamo ancora e tanti paesi – come il nostro – sono nel profondo di una crisi economica che si tramuta in una brutale aggressione di classe nei confronti del lavoro, con un processo di precarizzazione e impoverimento dei salari.

Il trionfo del liberismo politico (negli USA e in Occidente) si è accompagnato inscindibilmente al trionfo del liberismo economico che ha liquidato il capitalismo caritatevole e le politiche keynesiane di redistribuzione. Tutto questo con il concorso delle forze politiche, apparentemente progressiste, europee, statunitensi, Italia compresa. Queste forze hanno dato una veste nuova al capitalismo e al liberismo economico, associato, con visione astuta e raffinata, alla democrazia e alla difesa dei diritti sociali, in un matrimonio impossibile ma ben sponsorizzato. L’Europa unita da speranza di riscatto e di aspirazione alla pace si è trasformata da soggetto protagonista delle politiche di distensione, in uno strumento di penetrazione dei capitali tedeschi e francesi nei paesi dell’ex campo socialista, macchina onnivora di inglobamento di mercati e nazioni, indistinguibile dalla alleanza politico militare della NATO. Non l’Europa che vorremmo: strumento di pace nel segno del manifesto di Ventotene tradito, anche se non tutti ne fummo consapevoli, nel corso della guerra contro la Jugoslavia del 1991 che ha forse segnato il destino attuale dell’Europa.
Nel frattempo cresce la tensione tra le potenze e nuovi focolai di guerra si accendono e quelli già accesi non si spengono. Sotto i nostri occhi il martirio palestinese, l’agonia dell’Ucraina ma l’elenco potrebbe allungarsi a dismisura in tutti i continenti, dalla Somalia, all’Etiopia, all’Irak, alla Siria.

In Africa, si continua a combattere in Libia, e nei paesi dell’Africa Subsahariana si combatte contro lo Stato islamico, mentre si cerca di allontanare dai paesi i colonialisti francesi; si combatte anche in Nigeria. Si riaccende la guerra in Congo, iniziata nel 1976 e che coinvolge i paesi vicini, sempre fomentata da Francia, Belgio e Stati uniti che si contendono tramite terzi il controllo delle miniere di terre rare, in una guerra che ha già fatto 7 milioni di vittime. Nell’Oceano pacifico, cresce la tensione tra USA e Cina, tensione destinata ad acuirsi qualora le elezioni presidenziali negli Stati uniti d’America siano vinte dai repubblicani.

La tendenza alla guerra è connaturata alla natura e all’evoluzione del sistema economico capitalistico e imperialista. L’unica forza che può impedire la guerra mondiale, imporre il ritorno a politiche di coesistenza pacifica è la mobilitazione internazionale dei popoli per la pace per il riconoscimento dei diritti di ognuno, umani, economici e civili.

Noi che di questa Europa facciamo parte, guardiamo con apprensione a una Italia sempre più coinvolta dopo le guerre di Jugoslavia e di Libia nelle avventure militari della NATO ed ora col ridicolo, ma pericoloso scimmiottamento delle politiche muscolari degli Stati uniti, della Gran Bretagna e della Francia con un governo che invia le navi davanti alle coste palestinesi, nel Mar Rosso e nell’Oceano pacifico al seguito delle avventure di guerra USA.

Di fronte all’instabilità internazionale, alla crisi economica e alla paura crescente per il futuro, al timore per il cambiamento climatico troppe volte occultato dal dibattito politico, tra la gente crescono le spinte dettate dalla paura. La paura fornisce una base di massa e consenso a forze reazionarie, autoritarie, xenofobe, razziste e sessiste. Le prossime elezioni europee potrebbero sancire il predominio delle destre estreme in Europa: uno scenario drammatico che solo qualche anno fa sembrava imprevedibile.

Voglio dire con forza: la politica verso i migranti, non solo verso i rifugiati politici, deve prima di tutto essere umana! I CPR, lager nostrani, vanno chiusi, basta finanziare quelli in Libia e Tunisia, basta costringere chi salva i naufraghi a raggiungere porti lontanissimi sperando che la morte e la paura scoraggino i viaggi via mare, basta costruire muri sulle rotte balcaniche e dell’Europa centrale!

“Aiutiamoli a casa loro”! E’ uno slogan odioso: impegniamoci a rispettarne i diritti e l’umanità quando arrivano tra noi!

Intanto cresce anche l’esigenza insopprimibile dei popoli alla libertà.

Cuba resiste.

Il Venezuela ha superato una crisi durata 2 anni.  La Colombia ha eletto un presidente espressione della classe lavoratrice, dei contadini e delle popolazioni indigene. Il popolo boliviano ha sconfitto un golpe e ripreso il proprio cammino. Anche in Guatemala e in Messico si sono affermate forze democratiche. In Brasile sconfitti i tentativi golpisti di Bolsonaro, Lula e la sinistra sono tornati alla guida del paese. I kurdi di Turchia e Siria continuano a battersi per la pace, la democratizzazione dei loro paesi e continuano la guerra contro lo Stato Islamico. In Birmania la gioventù e le nazionalità oppresse proseguono l’opposizione civile, di massa e politico-militare contro i generali traditori.

In Libano, in Irak, in Sudan, in Iran i movimenti di contestazione dei regimi corrotti e autoritari, la richiesta di democrazia si scontrano con la logica di dominio delle potenze regionali e la prepotenza dei regimi e delle classi dirigenti, ma le idee di rivolta non sono morte e il popolo resiste nelle forme che riesce ad individuare. Negli Stati Uniti, il cuore dell’impero, il movimento operaio e sindacale conosce una nuova stagione di conflitto e di organizzazione, favorito dalla legislazione pro-lavoro imposto dalla sinistra come condizione per appoggiare Biden alle elezioni in cui sconfisse Trump.

Una piccola nota di fiducia anche in Europa, nonostante i venti di guerra al confine orientale, qualcosa si muove. Il movimento sindacale si radicalizza e poderosi scioperi si sono realizzati in tanti paesi europei, in difesa dei salari e dello stato sociale. La Spagna esprime un governo progressista e nel Nord Europa, il movimento operaio mantiene punti di forza anche se incapace di sottrarsi alla morsa dello sciovinismo nazionale e non riesce a sottrarsi dalla spirale della difesa del mondo libero, cioè della adesione al blocco occidentale.

Nella lotta di classe vediamo il terreno di ricostruzione di una nuova unità dei lavoratori europei per quella Europa sociale e solidale che abbiamo sognato e che continuiamo a volere.

LA SITUAZIONE NAZIONALE

L’Italia è governata da un governo apertamente reazionario.  Il governo Meloni è in carica dal mese di ottobre del 2022 ed è il risultato del maggior astensionismo nella storia della Repubblica. L’alleanza di governo ha raccolto il 44% delle preferenze delle elettrici e degli elettori con un dato di affluenza alle urne del 64%. Questo dato non delegittima in nessuna maniera il governo ma ci obbliga ad affrontare una riflessione di carattere politico. E’ quello in carica il governo in cui fascisti e conservatori si sono coalizzati attorno alla figura della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, la prima donna che ricopre il ruolo di Primo Ministro nella storia della nostra Repubblica.

La storia insegna che i grandi movimenti di estrema destra hanno preso il potere in Europa, nel corso del 20esimo secolo, anche partendo da coalizioni che assommavano, con formule diverse, destra estrema e conservatori democratici. Questo è successo in Italia, con il colpo di stato accettato supinamente dall’esercito e dalla casa regnante, è successo in Germania, ed è successo, pur passando attraverso una guerra civile sanguinosa, in Spagna. Certo le condizioni politiche generali oggi non fanno presagire che la torsione autoritaria assolutista e violenta di questi governi sia ripetibile nelle medesime forme: ma la nostra attenzione e il nostro impegno devono essere massimi, perché il fascismo, come ogni ideologia opportunista, è capace di trasformarsi e operare con i medesimi scopi e obiettivi pur senza ripetere gli stessi gesti, azioni ed errori. Lo dimostrano gli atti di governo approvati finora.

Questo governo sta mettendo in discussione ogni traccia di progresso presente nella nostra società. I diritti civili, i diritti delle donne, le politiche migratorie, le politiche del lavoro, l’assenza di una strategia per affrontare la crisi climatica e la transizione ecologica e l’adesione alla cultura bellicista, che l’alleanza atlantica sta praticando, sono tutti argomenti su cui si sta scatenando la furia reazionaria di questo.
La riforma costituzionale di stampo presidenzialista e l’autonomia differenziata rispondono a una strategia volta a rafforzare il ruolo dirigista del governo, che indebolisce il sistema dei bilanciamenti democratici presenti nel sistema costituzionale, che ricordiamolo sempre, era stato concepito proprio per evitare il rischio di derive antidemocratiche, presenti nel nostro paese. Non è sorprendente che una tale riforma, tesa a distruggere l’assetto costituzionale, sia portata avanti da queste forze politiche che affondano la propria radice culturale e storica nella destra fascista del MSI: forza politica che non è mai stato ricompresa nell’arco costituzionale.

Aver abolito il reddito di cittadinanza e aver definito il ministero all’istruzione come “ministero del merito” sono provvedimenti che rispondono ad una idea punitiva, sul piano culturale, ancor prima che normativo, della stratificazione sociale e di classe. In queste azioni è chiara l’idea che se non ottieni successo, o sei in difficoltà, è solo colpa tua e la politica, il governo, la parte presunta sana della società, non si può far carico di te.

La reintroduzione dei voucher, la riforma delle pensioni, le politiche fiscali che tendono a un progressivo appiattimento delle aliquote accompagnate alla rinnovata retorica del contenimento dei costi pubblici (che diventa pratica di governo che tocca gli interessi delle classi lavoratrici), sono il segnale di scelte economiche che penalizzano le fasce deboli della popolazione e segnano un ulteriore punto a favore dello smantellamento del sistema di welfare state su cui si sono basate le politiche redistributive del dopoguerra. Il welfare state pubblico non è passato di moda, non è strumento vecchio di cui è bene liberarsi perché costa troppo. Il welfare state pubblico assicura salute, istruzione, formazione, opportunità a tutti ed è il risultato del patto sociale su cui di fonda il modello di progressività fiscale previsto dalla nostra Costituzione. Attraverso il suo smantellamento si distrugge l’idea di fiscalità progressiva e redistributiva e si inseriscono ideali punitivi e penalizzanti “per chi non ce la fa”. Le classi dominanti vincono nel conflitto sociale, quando costringono le classi subalterne e pensare come loro. E il successo della destra è stato forte perché si è basato anche sull’inganno della destra sociale, la combinazione tra la falsa rappresentazione di interessi popolari e l’identificazione del nemico nel migrante, nel disoccupato e nel povero. Un inganno drammatico perché confonde il nemico con l’alleato, gioca sulla paura e non sulla speranza di un futuro diverso e identifica il tuo avversario all’interno della tua stessa classe sociale, confondendo e invertendo il rapporto tra sfruttati e sfruttatori. Insomma questa destra è funzionale al governo delle diseguaglianze, ampliate volutamente nel perverso gioco politico per cui il suo consenso proviene dalle classi che poi penalizza.

L’elezione di questo governo ha realizzato e compiuto un percorso di cui anche il centrosinistra deve sentirsi responsabile: perché il modello economico europeo, basato sull’equilibrio di bilancio e il patto di stabilità, con conseguente contenimento della spesa pubblica e riduzione degli investimenti in welfare, è frutto di scelte e progetti strategici di cui il centro sinistra è stato protagonista. Perché le radici della riforma dell’autonomia differenziata trova la propria via privilegiata nella riforma del titolo quinto della costituzione voluto anche dal centrosinistra. Non è una colpevolizzazione strumentale, deve essere una riflessione utile a cambiare il proprio approccio alle grandi questioni politiche. Io credo che per queste ragioni la CGIL abbia fatto bene a dichiarare lo sciopero generale di dicembre, ad organizzare la manifestazione di ottobre, e continui a proporsi come forza sindacale radicale nella sua proposta, alternativa a quella di una destra convinta del proprio progetto e di una sinistra che non sa più rappresentare i propri riferimenti culturali e sociali: quelli del lavoro e quelli dell’uguaglianza.
La CGIL deve continuare a offrire un ideale alternativo di società, praticando autonomia dalla politica, pur senza esserne indifferente, come ci diciamo spesso fra di noi. Un percorso egualitario, fondato sulla forza delle ragioni scritte nella costituzione, a partire dall’articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Sul piano del merito sindacale la CGIL ha dichiarato lo sciopero generale contro le politiche economiche del governo ma anche perché oggi la contrattazione non riesce a raccogliere e risolvere le istanze delle lavoratrici e dei lavoratori. E’ un fatto che dobbiamo analizzare con attenzione sapendo che non ovunque e in ogni settore la situazione è simile. Quel che è certo è che la centralità del contratto nazionale, quale regolatore dei rapporti di lavoro, è oggi messo fortemente in discussione.
Il progetto alternativo di società su cui si impegna quotidianamente la CGIL allora deve dotarsi di strumenti indispensabili per restituire forza all’azione della contrattazione: la carta dei diritti era, e a mio parere resta, l’elaborazione migliore che siamo stati capaci di offrire al paese in questa ottica. Purtroppo sappiamo che giace nei cassetti del parlamento senza che nessuno voglia parlarne (a cominciare da noi, forse ce ne siamo scordati troppo presto). Oltre alla carta dei diritti, oggi abbiamo bisogno di rilanciare alcuni temi ed obiettivi: la legge sulla rappresentanza, il salario minimo e meccanismi di indicizzazione dei salari definiti anche per via contrattuale, la condizionalità nella aggiudicazione degli appalti pubblici al rispetto dei contratti nazionali e delle normative previdenziali e su salute e sicurezza. La legge sulla rappresentanza è indispensabile oggi, anche a fronte del metodo del governo che mette tutti i soggetti di rappresentanza sociale sullo stesso piano, senza volerne riconoscere storia e profondità rappresentativa nella società.

Il salario minimo e l’indicizzazione dei salari, associati alla legge sulla rappresentanza potranno proteggere il potere di acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori di fronte alle oscillazioni inflattive e alla debolezza contrattuale di comparti produttivi, come quelli che noi in FILCAMS conosciamo e rappresentiamo a partire da vigilanza, servizi fiduciari e imprese di pulimento o multiservizi, caratterizzate dalla frammentazione produttiva.

Il sistema pubblico è il più grande produttore di precarietà lavorativa: attraverso gli appalti pubblici si rendono deboli e precari milioni di lavoratori e lavoratrici. Attraverso il quadro normativo, diverso da quello imposto con il codice degli appalti, si dovrebbero imporre il rispetto delle normative su salute e sicurezza, la certezza della regolarità contributiva (già parzialmente in atto) e l’applicazione dei contratti sottoscritti dalle OO.SS. maggiormente rappresentative. Il tutto per quegli appalti considerati necessari perché la nostra prima battaglia e primo obiettivo dovrà essere quello della reinternalizzazione dei servizi.

Infine, la lotta alla precarietà: senza certezze non c’è futuro. Non possiamo continuare ad avere una generazione che invecchia senza diritti, certezze e stabilità. Questo è un tema su cui dobbiamo operare con determinazione.

Ma per poter realizzare i nostri obiettivi è bene che lavoriamo per rilanciare la nostra azione sociale che però deve partire da una riflessione profonda sulla natura della nostra organizzazione. Io lo ricordo bene cosa emerse nel corso del seminario del 2018 a Rimini: i delegati espressero chiaramente la volontà di sentirsi parte attiva delle decisioni della CGIL. In quella occasione diversi di loro raccontarono la delusione che vivevano nel rapportarsi con una organizzazione che scriveva documenti bellissimi, esprimeva posizioni condivisibili, lanciava slogan coinvolgenti, ma che poi non sempre faceva vivere tra le delegate e i delegati e tra le lavoratrici e i lavoratori. Le loro parole segnavano la distanza tra ciò che la CGIL dichiara di essere e fare e ciò che viene percepito e praticato. Una richiesta di attenzione che poneva al centro la costruzione non del consenso (l’ossessione della moderna politica) ma della partecipazione: due strade diverse che creano cittadinanza attiva e progresso (la partecipazione) o la cittadinanza passiva e la regressione (il solo consenso). Se la nostra organizzazione non ragiona in termini di partecipazione è destinata a morire. Per questi motivi noi abbiamo più volte contestato la prassi delle riunioni tra segretari generali. La nostra critica non è il capriccio di chi si sente escluso dalla discussione, ma la presa d’atto, consapevole, che nella nostra amata CGIL si sta attivando una prassi negativa che distingue gli ambiti decisionali formali da quelli sostanziali, rendendo esplicita solo una parte della discussione. La democrazia è fatta di forma (le regole e lo statuto che l’organizzazione ha definito) ma anche di sostanza: la sostanza è come si intendono i rapporti tra le istanze statutarie, tra le strutture dell’organizzazione e tra queste due e l’insieme delle delegate e degli iscritti. Senza una ridefinizione aperta di questi processi la nostra organizzazione è destinata ad inaridire, a non essere, perché la CGIL o è collettiva o non è.

Nel quadro confederale è necessario anche affrontare il tema dei rapporti unitari: nessuno è così ingenuo da pensare che la dichiarazione di sciopero generale fatta dalle sole CGIL e UIL sia frutto esclusivo del giudizio sulla manovra economica del governo. In gioco ci sono anche i rapporti sociali del futuro e il modello di relazioni sindacali su cui impostarlo. La scelta della CISL di affiancare il governo senza accennare alla minima forma di opposizione sociale non nasce solo da valutazioni politiche che possono sfociare nell’opportunità di agganciarsi al treno del consenso di centrodestra. La distanza tra noi e la CISL nasce primariamente nel modello di relazioni sociali che vogliamo strutturare e praticare. Anche qua si torna alla costituzione e all’architettura istituzionale che i padri costituenti avevano in mente. Il sindacato è soggetto di rappresentanza sociale che si assume il compito di organizzare le masse lavoratrici, diventando anche parte dei contrappesi democratici nel sistema. Non dimentichiamo mai lo slogan che accompagnò l’approvazione dello statuto dei lavoratori del 1970: la costituzione entra in fabbrica. Oggi la CISL può diventare lo strumento di collegamento sociale con il mondo del lavoro nel nuovo stato che la destra ha in mente. Un modello corporativo, in cui si fa conciliazione economica e non contrapposizione tra soggetti preposti alla rappresentanza di interessi diversi. Nel modello di conciliazione sociale proposto dalla CISL i principi di democrazia economica si realizzano grazie alla bilateralità, al riconoscimento istituzionale del ruolo sindacale, senza la certificazione del numero di lavoratrici e lavoratori iscritti al sindacato, agli strumenti politici della presenza di rappresentanti sindacali nei consigli di amministrazione e attraverso la delega alla gestione di una serie di servizi quali formazione, sanità integrativa e previdenza sociale. Un modello mutualistico di welfare su cui di fatto il sindacato rinuncia alla propria missione di organizzatrice delle masse. Qua guardate non pongo un tema di onestà intellettuale o tradimento della classe operaia e impiegatizia, pongo un tema di carattere politico diverso: quale modello vogliamo praticare. Lo dico senza nascondermi: nel modello che la CISL ha in mente noi non ne siamo completamente esclusi. Pensiamo agli enti bilaterali, pensiamo al nostro ruolo nei patronati, pensiamo a come le quote di assistenza contrattuale, che vengono erogate ai sindacati firmatari il contratto nazionale, sono fonte di finanziamento anche della nostra organizzazione. Ma se la CGIL è consapevole che questi strumenti sono importanti, sa anche che senza il ruolo di guida e organizzazione del conflitto sociale siamo destinati a cambiare completamente faccia e ruolo, peggiorando in modo definitivo e deleterio l’equilibrio tra servizi e contrattazione che fino ad oggi ha tenuto. Probabilmente giornate come quelle odierne non avrebbero più senso e il ruolo che le organizzazioni sindacali assumerebbero sarebbe quello dettato dall’agenda del governo, delle compatibilità economiche e del completo assoggettamento agli interessi prevalenti delle classi dominanti: alla faccia della democrazia economica. Su questo dovremmo anche essere coraggiosi, noi come sinistra sindacale prima degli altri, ad imporre una riflessione sulla struttura organizzativa del sindacato confederale, tutto.

Il ruolo di rappresentanza di interessi e di opposizione sociale ci obbliga anche a ragionare sugli strumenti di lotta che agiamo nella pratica. Gli ultimi scioperi generali sono sembrati la ripetizione stanca di un rito che non trova più risposte adeguate tra le lavoratrici e i lavoratori. Ma come fare allora? Io resto dell’idea che la pratica quotidiana, fatta di presenza, discussione e partecipazione possa funzionare ancora e rimettere in movimento la macchina della lotta. Ma perché funzioni è indispensabile non parlare soltanto ma saper creare coinvolgimento: ritorno al seminario di Rimini e a ciò che dissero i delegati. O si ricrea la percezione che il sindacato, noi che ne siamo parte dirigente, è fatto dalle lavoratrici e i lavoratori o non otterremo risultati reali e gli strumenti della lotta, dello sciopero si indeboliranno sempre più.

E’ necessario dare continuità alla trasmissione delle informazioni, ma soprattutto bisogna ascoltare ciò che proviene dalle nostre delegate e dai nostri delegati, senza farsi travolgere dal dibattito, ma guidando le discussioni e dando prospettiva alla voce di chi rappresentiamo. Abbiamo svolto questo ruolo per tutto il dopoguerra; oggi, anche se cambiano gli strumenti di comunicazione, non cambiano i bisogni comunicativi: sentirsi ascoltati e percepire attenzione alle proprie necessità.

Nella discussione sugli strumenti di azione sindacale si è imposta in queste settimane anche l’opportunità, per la CGIL, di avviare una campagna referendaria. Lavoro, fisco e riforme costituzionali tra i temi su cui si vorrebbero promuovere una serie di referendum e proposte di legge di iniziativa popolare. Noi pensiamo che lo strumento del referendum, in questo momento, non sia utile a rilanciare la nostra presenza nel mondo del lavoro e nella società. La prossima settimana l’assemblea generale della CGIL discuterà di questo. Noi ascolteremo e proporremo la nostra riflessione, come abbiamo sempre fatto. Decideremo sulla base della proposta di azione complessiva ma una valutazione sul metodo oggi ritengo doveroso farla: una scelta strategica di tale portata non può essere ridotta a due assemblee generali nazionali, ma avrebbe richiesto tempi maggiori. Tempi indispensabili non per volontà dilatoria e burocratica, ma perché le valutazioni avrebbero dovuto essere condivise da tutta l’organizzazione nella sua articolazione, confederale e di categoria, nazionale, regionale e provinciale. Se si dichiara di voler costruire partecipazione il primo soggetto che deve sentirsi coinvolto è il corpo attivo della CGIL, fatto da delegati, funzionari e segreterie, nessuno escluso.

 

La FILCAMS

La FILCAMS è stata protagonista in questi mesi di una grande mobilitazione che è sfociata nello sciopero e nelle manifestazioni del mese di dicembre. Una iniziativa che è durata diversi mesi, iniziata a maggio a Firenze e che oggi non possiamo definire ancora conclusa. Questa lotta ha visto un successo rilevante, tra le lavoratrici e i lavoratori dei nostri settori, grazie a tre elementi determinanti.

Chiarezza negli obiettivi: il rinnovo dei contratti nazionali a fronte dei ritardi accumulati e della spinta inflattiva era e resta un obiettivo chiaro, condivisibile, vissuto e partecipato dalle persone.

La preparazione alla mobilitazione e il percorso che hanno portato allo sciopero: non ci sono stati momenti di tentennamento nel percorso che la categoria ha proposto alle lavoratrici e ai lavoratori. Mai è stato fatto un passo indietro tattico, magari nel timore di costruire aspettative elevate. Mesi di mobilitazione con iniziative diffuse, campagne di assemblee e momenti aggregativi. Il tutto coinvolgendo i diversi livelli dell’organizzazione, dalle segreterie generali fino a chi lavora in azienda, iscritto o meno, alle organizzazioni sindacali. In questo percorso aver mantenuto un profilo unitario con FISASCAT e UILTUCS è risultato determinante.

Il rapporto con la confederazione: il rapporto con la confederazione, e con le mobilitazioni confederali ci ha permesso la costruzione di alleanze forti. Anche la vivace caratterizzazione della nostra presenza alle diverse iniziative della confederazione ha dato carattere generale alle vertenze specifiche dei nostri settori.

Ora però arriva la parte più complessa. Dopo il grande risultato dello sciopero dovremo essere capaci di portare i risultati negoziali attesi e dovremo essere capaci di consolidare la forte identità costruita in questi mesi. Dovremo essere capaci, in primo luogo, di mantenere aperto il dialogo costante con lavoratrici e lavoratori a cui dobbiamo ogni aggiornamento possibile in tempo reale, per non disperdere la partecipazione creata.

Ma per noi la vita non è facile e dovremo mantenere alto il livello della mobilitazione svolgendo un lavoro enorme: ricordiamolo, noi rappresentiamo alcuni dei settori più deboli del mondo del lavoro e della filiera produttiva. La grande distribuzione, privata o cooperativa, il mondo dei servizi come imprese di pulizie, mense, vigilanza, gli alberghi e il turismo in genere e poi studi professionali, farmacie, parrucchieri ed estetisti. Sicuramente ne dimentico qualcuno; i nostri sono tutti settori in cui la frammentazione produttiva condiziona la nostra pratica sindacale e la nostra volontà di ricomposizione delle politiche contrattuali. Dobbiamo continuare a essere determinati e non mollare la presa, altrimenti perderemo il legame e riprodurremmo una debolezza perdente.

A questo elemento strutturale bisogna aggiungere la valutazione della natura produttiva dei nostri settori, costituita principalmente da aziende che producono servizi senza averne il controllo del valore, determinato da chi quel servizio compra e sulle cui tariffe opera una fortissima pressione concorrenziale. Settori in cui avvertiamo anche la mancanza di aziende leader che guidino il mercato (non sempre nel bene sia chiaro) e determinino le politiche di comparto. Manca omogeneità e le stesse imprese vivono in modo disorganico la propria funzione, senza politiche imprenditoriali condivise, strategie competitive o scelte strategiche produttive per il futuro. In questa condizione il solo elemento economico di concorrenza è rappresentato dei costi di cui, come sempre, il lavoro rappresenta la voce utile a produrre profitto.

E’ indispensabile approfondire questa analisi altrimenti non usciremo da questa situazione di debolezza. I nostri contratti, anche a causa di queste condizioni, determinano elementi di concorrenza economica tra aziende: se pensiamo al contratto dei multiservizi o quello della vigilanza con i servizi fiduciari, di cui tanto si parla e si è parlato, capiamo che è facile per le imprese inserirsi e sfruttare una condizione favorevole in modo improprio ma di difficile contrasto.  

Oggi per esempio la FILCAMS ha appena concluso la revisione delle tabelle retributive, (grazie alla clausola di revisione economica degli aumenti voluta da noi) del contratto della vigilanza; contratto in cui grazie anche all’intervento della magistratura si è potuto porre un argine, pur parziale, alla deriva salariale. Ma non ne possiamo ascrivere solo una responsabilità politica alla categoria: sono le condizioni che determinano il risultato di un contratto, se ce ne ricordiamo possiamo ragionare per poter porre in futuro i correttivi a questa dinamica.

Correttivi che devono partire dagli strumenti che si offrono alla contrattazione per essere agita.

Li ho citati parlando delle politiche confederali, li riassumo per comodità di ragionamento: legge sulla rappresentanza, salario minimo e indicizzazione degli aumenti salariali, condizionalità nella concessione degli appalti. La sovrapposizione di argomenti dimostra quanto è indispensabile per la FILCAMS CGIL aprire il proprio orizzonte politico. La sovrapposizione di argomenti dimostra quanto è risultato fondamentale il rapporto con la confederazione nell’azione di mobilitazione. Noi siamo la rappresentazione plastica di come politica generale, conflitto economico tra capitale e lavoro, frammentazione sociale sulla quale operare un lavoro di ricomposizione di classe siano gli ingredienti fondamentali per poter modificare la situazione attuale. In questo momento scegliere percorsi esclusivamente corporativi o aziendali (pur a fronte di qualche possibile successo locale o aziendale) risulterebbe perdente.
Noi però dobbiamo impegnarci e praticare alcune coerenze: la più rilevante rimane quella della rappresentanza.

Se le condizioni organizzative delle imprese del terziario sono articolate e frammentate, noi abbiamo un dovere: tentare di ridurre gli effetti di questa frammentazione. Come possiamo farlo se non attraverso lo strumento della rappresentanza: è innegabile il fatto che nei comparti della FILCAMS, e nei nostri territori, si preferisce utilizzare lo strumento delle rappresentanze sindacali aziendali invece delle rappresentanze sindacali unitarie. Le elezioni delle RSU sono faticose, a volte poco praticabili non lo nego, e limitano l’autorità della struttura sindacale. Sia chiaro: le RSA sono una forma della rappresentanza legittima che dobbiamo tutelare. Ma non possiamo sfuggire al processo di rafforzamento della nostra capacità di rappresentanza limitandoci a praticare la sola opzione della nomina delle RSA. La partecipazione si organizza e si determina anche grazie ai meccanismi sindacali per cui il delegato riprende il proprio ruolo centrale nella vita dell’organizzazione. Nel rapporto tra categorie e nella discussione tra le stesse, possiamo porci la domanda se la maggior forza politica delle categorie industrialiste sia data, oltre che dalla struttura delle imprese e dalla ricchezza del settore, anche dalla forma della rappresentanza che ci si è dati? Se non ci proviamo non ci riusciremo mai, e continueremo ad avere una base di rappresentanza nominata, dipendente dall’organizzazione e incapace di crescere per spingere sulle politiche sindacali e contrattuali.

In questa relazione ho scelto di non entrare nel dettaglio delle vertenze di categoria o aziendali. Io credo e auspico che gli interventi dei delegati raccontino la situazione nelle aziende e poi c’è Fabrizio che nei suoi ragionamenti se vorrà potrà darci anche un orientamento su ciò che sta accadendo.

 

LAVORO E SOCIETA’ NELLA CGIL E NELLA FILCAMS

La CGIL del XXI° secolo ha bisogno più che mai - coerentemente con le ragioni ideali, politiche e sociali che ne hanno determinato la storia ultracentenaria e il ruolo di protagonista nella nascita e nel rafforzamento della Repubblica nata dalla Resistenza - di una sinistra sindacale confederale che non sia semplicemente la custode della memoria, ma che riaffermi la validità dell’economia politica e della lotta di classe come strumenti teorici per l’azione, l’abolizione dello sfruttamento degli esseri umani tra loro, l’unità di classe del mondo del lavoro di ieri e di oggi, senza alcuna distinzione di genere, di etnia o religione, come essenza della confederalità, come prospettiva dell’intero movimento sindacale.

Queste parole sono tratte dal documento costitutivo della nostra aggregazione, presentato nell’assemblea generale della CGIL di circa un anno fa. In queste parole ci sono le nostre basi.

In quel documento riaffermammo le ragioni del sostegno al documento “il lavoro crea il futuro” primo firmatario il nostro segretario generale Maurizio Landini.
Nel preparare questa relazione ho riletto ciò che scrissi due anni fa per il seminario di Perugia: vi ho ritrovato molte delle questioni citate nel documento.
Allora come oggi eravamo reduci dallo sciopero generale indetto con la sola UIL. Allora eravamo alle porte del congresso, oggi siamo al bilancio di quel congresso.
Allora come oggi eravamo nel pieno della riflessione su ciò che siamo, come area, e su come lavorare per il nostro futuro.

La nostra area resta un luogo privilegiato di militanza e discussione nella CGIL: lo dico con grande convinzione. Senza una sinistra sindacale organizzata la nostra confederazione e le nostre categorie sarebbero peggiori. Perché nel pluralismo delle idee che siamo capaci di sostenere esiste la possibilità per segretarie e segretari, funzionarie e funzionari, delegate e delegati di praticare la discussione, il dibattito, fare palestra di pensiero critico che significa, nella nostra impostazione, gettare le basi per costruire progetti migliori portando valore e merito. Non contrapposizione, ma sostegno critico alla linea per poterla praticare con coerenza e migliorarla: come diciamo nel nostro documento: “un collettivo di pensiero critico, di proposta e di impegno, non per distinguerci ma per contribuire al rinnovamento dell’organizzazione, alla sua crescita e all’insediamento nei luoghi di lavoro e nella società a ogni livello. “

Insomma, la nostra scelta di sostegno alla linea della CGIL resta confermata nella sua essenza: noi crediamo fino in fondo al nostro ruolo nella società e nel suo sviluppo operativo, contrattuale e politico. Ma questa scelta non può e non deve essere una gabbia in cui rinchiudersi.

Praticare pensiero critico significa anche assumere posizioni scomode e faticose alle volte. Non dobbiamo temere il confronto: siamo una aggregazione programmatica e abbiamo il diritto e il dovere di esercitare autonomia di giudizio e libertà di posizionamento.
Se ci sentiamo nelle condizioni di fare questo allora potremo anche essere coraggiosi e aprirci, navigando in mare aperto, come amiamo dire, anche per ridefinire la nostra dimensione attuale di sinistra sindacale.

Aprirci può apparire uno slogan, una parola vuota e senza grande senso, ma o noi ci apriamo a tutti coloro nella CGIL che vogliono nutrirsi di consapevolezza (e di lotta) di classe, di pace come valore supremo e di giustizia sociale come sua declinazione indispensabile, di partecipazione attiva delle delegate e dei delegati, di contrattazione come epicentro della nostra azione sindacale e di confederalità come pietra portante su cui svilupparla, di parità di genere effettiva, del diritto di ognuno a vivere nella dimensione personale che più ama, nella difficile ma non impossibile unione tra libertà e giustizia sociale (o ci apriamo a chi crede come noi che un alternativa sia un contributo e un valore per la CGIL) o moriremo.

La nostra azione e il nostro radicamento vivono una crisi che non voglio tacere: non è semplice praticare senso critico e al tempo stesso sostenere la linea dell’organizzazione. Bisogna trovare il giusto equilibrio per non restare schiacciati tra l’idea di unità che ci sostiene e la nostra voglia e capacità di riflessione e autonomia di analisi. A volte questa scelta diventa difficilmente comprensibile e perdiamo forza, vigore: non nella nostra volontà di agire, ma nella visibilità del nostro contributo al dibattito. Noi, inoltre, siamo maggioranza senza per questo essere considerati tali: i dirigenti che a Lavoro Società fanno riferimento arrivano molto faticosamente a ricoprire ruoli di direzione politica. Ogni singola postazione e ogni singolo spazio di militanza è frutto di discussioni serrate e a volte demotivanti.

Non è giusto, non lo consideriamo giusto perché o la nostra lealtà culturale e la nostra fedeltà all’organizzazione trovano rispetto e considerazione oppure c’è un problema grande. Noi non facemmo la scelta maggioritaria per opportunismo: lo siamo per convinzione e perché ciò che ci divideva in passato, a partire dalla politica dei redditi del 1993, è oggi superato dalla storia. Per questo noi continuiamo a offrire la nostra disponibilità a ricoprire un incarico di direzione politica nella categoria nazionale, pensiamo di meritarlo, pensiamo di poter offrire compagne e compagni dalle capacità importanti, oggi, e in prospettiva.

Due anni fa, nella mia relazione, parlavo di testimone, oggi questo testimone è ancora più pesante. Lo dico ai giovani ed alle giovani dirigenti: metteteci in discussione, in difficoltà. Fateci sentire superati. Venite da noi a spiegarci come funziona il mondo oggi. Non temete di essere protagonisti: io ho imparato tanto da chi metteva in crisi il gruppo dirigente. Così siamo cresciuti, così siamo diventati grandi: forse abbiamo smesso di crescere quando non è più stata messa in discussione la gerarchia, ovunque e in qualunque ambito dell’organizzazione. Andrea ci diceva sempre di studiare per diventare rossi ed esperti. Io vi dico, studiate perché voi dovrete essere più bravi di noi nell’essere rossi ed esperti. Io da coordinatore della nostra aggregazione lavoro per questo: creare le condizioni perché presto una giovane o un giovane mi affianchino e poi mi sostituiscano; solo così sentirò di aver svolto il mio compito nella CGIL e in Lavoro Società.

Come in ogni relazione sono molte le cose che mancano o che ognuno di noi vorrebbe aggiungere o vorrebbe enfatizzare: sono sicuro la discussione saprà colmare questo vuoto perché noi prima di ogni altra cosa siamo una grande intelligenza collettiva.

Buon lavoro e grazie della vostra pazienza e ascolto.