“L’Italia e l’Europa: la sfida del salario minimo” - La relazione di Nicola Quondamatteo

PACE, LAVORO, DIRITTI, SALARIO – Milano, 22 e 23 febbraio 2024
23 febbraio, Assemblea nazionale ‘Lavoro Società’ in FILCAMS-CGIL
“Un’aggregazione per far crescere la linea sindacale di classe in Cgil”


Relazione di Nicola Quondamatteo
(Assegnista di Ricerca presso l’Università di Padova)

L’Italia e l’Europa: la sfida del salario minimo

 

Alla crisi del 2008 e alla successiva crisi dei debiti sovrani che ha investito in particolare i paesi fragili e periferici dell’Unione Europea e dell’Eurozona, ha fatto seguito – come noto – l’austerity. Sul terreno delle politiche salariali, le misure di policy richieste dalle istituzioni comunitarie agli Stati in difficoltà sono state di segno deflazionistico, nel quadro di una spinta verso la liberalizzazione dei mercati del lavoro. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo menzionare in proposito la famosa lettera inviata nel 2011 da Trichet e Draghi all’allora governo italiano di centro-destra – in affanno e in crisi di legittimità, travolto dagli scandali ma indebolito anche da un articolato ciclo di lotte sociali e democratiche (studenti, movimento delle donne, beni comuni ecc.) che si erano sviluppate in quegli anni. La lettera di Trichet e Draghi parlava un linguaggio chiaro: decentralizzare la contrattazione collettiva (anche per quanto riguarda la definizione dei minimi salariali) e liberalizzare in entrata e in uscita il mercato del lavoro. Il governo Berlusconi rispose con l’art. 8, l’esecutivo tecnico guidato da Mario Monti con il primo indebolimento dell’articolo 18 (l’opera sarà poi completata da Renzi negli anni successivi).

In Irlanda, nel 2011, il salario minimo venne tagliato dell’11,5%; il nuovo governo reintrodusse poi l’importo precedente, ma la Troika accettò solo a patto che i datori di lavoro venissero compensati per quanto riguarda la contribuzione sociale. In Portogallo, la Troika assunse un ruolo ancora più dirimente nella determinazione delle politiche salariali: gli incrementi della retribuzione minima potevano avvenire solo se giustificati da condizioni economiche e la Troika stessa si ritagliò un potere di veto. Si arrivò dunque a un congelamento di fatto, mentre veniva bloccata ogni ipotesi di estensione della contrattazione collettiva. Nel febbraio 2012, la Grecia tagliò del 22% il salario minimo, nonostante l’opposizione delle parti sociali: una sforbiciata che violava dunque l’autonomia contrattuale, visto che il pavimento stipendiale era stato pattuito con l’accordo di sindacati e imprese. In Spagna veniva sospesa, per la prima volta dagli anni ’60, l’indicizzazione annuale, mentre la Bce chiedeva precarizzazione e mini-jobs in cambio dell’acquisto dei bond di Madrid. Anche in Romania Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale e Commissione Europea spinsero per la decentralizzazione della contrattazione collettiva, ma anche per norme più restrittive per il riconoscimento del sindacato nelle aziende. La Confederazione Europea dei Sindacati criticò complessivamente questo impianto, regressivo per la giustizia sociale ma contraddittorio anche negli esiti di politica economica. La depressione della domanda aggregata aggravava la crisi, mentre sulla competitività emergeva un cortocircuito. La ricerca di questa via bassa alla competitività poteva “funzionare” solo se applicata in un determinato paese. Ma una volta generalizzatasi restava soltanto una generale corsa al ribasso.

Rispetto all’insieme di queste misure regressive, la direttiva europea sui salari minimi adeguati sembra rispondere ad altri criteri, più orientati alla giustizia sociale. Si tratta di un cambiamento di paradigma, con la priorità che passa dalla liberalizzazione e la decentralizzazione alla protezione sociale – come si chiede la studiosa Anke Hassel? Probabilmente un giudizio cauto e prudente è necessario, specie se collochiamo la nostra riflessione in un quadro più ampio che comprende il nuovo patto di stabilità ugualmente orientato al rigore (dopo la congiuntura pandemica) e le risposte altrettanto conservatrici della Bce di Christine Lagarde alla crisi inflazionistica. Ma non c’è comunque dubbio che la direttiva sui salari minimi abbia un segno progressivo, di “de-mercificazione” del lavoro per usare le parole di Karl Polanyi. In ciò si distingue positivamente, ad esempio, dalla direttiva sul lavoro in distacco – segnata da un impianto liberale e di mercato. La direttiva sul lavoro di piattaforma, nel momento in cui scriviamo, sembra destinata invece ad un esito intermedio: frenata l’ambizione più progressiva incarnata dal Parlamento Europeo e dal governo spagnolo che spingevano per una più robusta presunzione di subordinazione, arginato il disegno più restauratore e organicamente neoliberale della Francia di Macron.

La direttiva sui salari minimi non prevede un obbligo per gli Stati membri di dotarsi di un salario minimo se si raggiunge una copertura della contrattazione collettiva dell’80%. Si dà, meritoriamente, priorità alla contrattazione settoriale – in questo segnando una positiva discontinuità con la stagione precedente. Gli obiettivi da raggiungere sono due: la retribuzione minima deve essere pari al 60% del salario mediano nazionale e al 50% del salario medio. Il riferimento di questi target affonda le radici nella ricerca scientifica sulla povertà: il 60% del reddito mediano rappresenta infatti la soglia minima necessaria per evitare il rischio povertà (il 50% del reddito mediano è invece la soglia della povertà assoluta). Un altro criterio possibile da tenere a mente è quello dell’Ocse, secondo il quale la soglia per definire il lavoro povero è quella dei 2/3 del reddito mediano. Secondo i dati del 2020, solamente Francia e Portogallo rispettavano i target della direttiva anche se il risultato portoghese è viziato dalla presenza di una struttura salariale complessiva molto debole (per cui rispettare i criteri è relativamente più facile ma non perciò indicativo di una situazione virtuosa). La Spagna sta facendo significativi passi avanti per centrare il target, il cui raggiungimento è uno degli obiettivi programmatici di legislatura definiti dall’accordo di governo tra il partito socialista (Psoe) e la sinistra radicale (Sumar), la quale esprime la Ministra del Lavoro Yolanda Díaz – artefice di provvedimenti progressivi in materia lavoristica (limitazione della precarietà, riconoscimento dello status di salariati per i riders delle piattaforme ecc.), nonché di aumenti significativi del salario minimo. L’ultimo incremento, da 1080 a 1134€ mensili lordi e per quattordici mensilità, è avvenuto all’inizio di quest’anno. È stato pattuito con i soli sindacati, vista l’indisponibilità e la contrarietà dei datori di lavoro. L’aumento è stato del 5%, superiore di un punto e mezzo al tasso di inflazione. Resta però ancora della strada da fare per centrare l’obiettivo europeo del 60% del salario mediano, che secondo i calcoli del sindacato UGT in Spagna corrisponderebbe a circa 1200€ mensili.

Ad ogni modo, nell’Unione Europea sono cinque gli Stati membri senza un salario minimo definito per legge. Oltre all’Italia, ci sono Svezia, Danimarca, Finlandia e Austria. In Svezia e Danimarca i sindacati si oppongono alla regolazione per legge delle retribuzioni minime. Sono contrari anche all’estensione amministrativa della contrattazione collettiva. La dualizzazione del mercato del lavoro è un fenomeno in crescita anche in Svezia e Danimarca come sottolineato dallo studioso Jens Arnholtz. Le organizzazioni dei lavoratori preferiscono però contare sulla propria forza e non sulla regolazione statale. Un esempio è rappresentato dalle clausole pro-labour che il movimento operaio danese è riuscito ad ottenere in diverse aziende per rappresentare il lavoro in distacco. Un approccio efficace, che però richiede notevoli risorse organizzative. Diverso è il caso della Finlandia o anche della Norvegia la quale, pur non essendo in UE, fa parte di Schengen e del mercato comune europeo. Anche qui i sindacati sono contrari al salario minimo, ma non all’estensione legale dei contratti collettivi. Quest’ultima si è affermata di fronte a tematiche quali il lavoro migrante e distaccato, che hanno comportato una politicizzazione delle relazioni industriali. In Norvegia l’estensione della contrattazione collettiva si applica in settori specifici quali la cantieristica navale, mentre in Finlandia è più ampiamente utilizzata anche in edilizia e nel campo metalmeccanico. Secondo Nathan Lillie, pur non rappresentando una panacea per tutti i mali, l’estensione legale della contrattazione ha prodotto risultati apprezzabili sia in Finlandia che in Norvegia, determinando una situazione migliore rispetto agli altri due paesi scandinavi. Lo stesso Nathan Lillie, in un contributo per la rivista dei sindacati europei, ha invitato il movimento operaio nordico a riflettere sullo snodo cruciale della direttiva comunitaria sul salario minimo. Lo studioso invita a non rinchiudersi in un’elaborazione confinata allo Stato nazione, guardando piuttosto a come un generale miglioramento delle politiche salariali europee (anche tramite intervento legislativo) può essere visto come uno strumento per salvaguardare, e non per affossare, il modello nordico – che si trova comunque a fare i conti col distacco transnazionale e possibili fenomeni di dumping. In Austria, infine, non è presente un salario minimo legale ma esiste un pavimento salariale contrattato da sindacati e datori di lavoro, a cui i vari settori merceologici – con differenti timelines – sono tenuti ad adeguarsi. Questo strumento esiste dal 2007 ed aiuta a combattere l’incidenza del lavoro povero e dei bassi salari.

Prima di focalizzarci sul caso italiano, passiamo brevemente ad analizzare la situazione di due paesi che – in periodi diversi – hanno introdotto il salario minimo per legge: la Germania e il Regno Unito (quest’ultimo uscito dall’Unione Europea in seguito alla Brexit, pertanto non più soggetto alle direttive comunitarie). In Germania l’autonomia della contrattazione è stata a lungo frutto di un retaggio storico molto forte. Le cose sono iniziate a cambiare negli ultimi decenni. Le trasformazioni del lavoro (femminilizzazione, terziarizzazione ecc.), accompagnate dall’unificazione con la Germania orientale, hanno lasciato molte aree non presidiate dalla contrattazione. Nel movimento sindacale è progressivamente maturato un orientamento diverso. Il sindacato dei servizi, Ver.di, è stato il primo ad aprire al salario minimo e ciò è avvenuto perché esso operava ed opera in contesti ad alta presenza di lavoro migrante e distaccato. Anche Ig Metall ha cambiato posizione: dallo scetticismo tradizionale a un importante supporto. Resta contrario il sindacato dei chimici. Il salario minimo è stato ad ogni modo introdotto nel 2015: era la contropartita richiesta dal partito socialdemocratico (Spd) per dare il proprio sostegno al governo di grande coalizione guidato da Angela Merkel. Il salario minimo è stato introdotto ad un livello di 8,5€, riconoscendo ai sindacati un ruolo nella definizione degli aumenti. È stato poi aumentato a 12€, a seguito di una iniziativa della Spd che ne aveva fatto il cavallo di battaglia per l’ultima campagna elettorale nazionale. È stato poi aumento a 12,41€ a partire dal 1° gennaio 2024. Complessivamente, il ruolo della Spd è stato importante. Dopo aver flessibilizzato il mercato del lavoro a inizio secolo, è probabilmente maturata la consapevolezza che il vecchio patto sociale (moderazione salariale e modello di crescita export-led) vedeva restringere la sua base, anche elettorale, lasciando molte quote di lavoro fuori dall’accesso ad una piena cittadinanza sociale. Un ripensamento non complessivo, alla luce ad esempio di politiche fiscali che rimangono conservatrici e restrittive, ma che ci parla di quanto il lavoro povero sia uno snodo centrale nella politica contemporanea.

Nel Regno Unito il salario minimo è stato introdotto, a livelli bassi, da Tony Blair a fine anni Novanta. Il movimento operaio era tradizionalmente scettico, ma finì per convincersi dopo le sconfitte subite ad opera di Margaret Thatcher. Il salario minimo venne introdotto in maniera anche compensatoria rispetto agli arretramenti subiti su contrattazione, sciopero, rappresentanza. Il salario minimo è stato recentemente trasformato in “living wage” dai governi conservatori pur se questo è avvenuto in un quadro di austerità e mentre la compressione dei diritti sociali (a partire dal diritto di sciopero) continua ad andare avanti. Il primo target che il Regno Unito si è dato per il “living wage” è il 60% del salario mediano, contando di arrivare progressivamente ai 2/3 dello stesso. Come emerge dalle ricerche di Guglielmo Meardi, il salario minimo nel Regno Unito ha un fondamentale pregio: è un diritto individuale semplice da conoscere (anche per gli immigrati arrivati da poco) ed è relativamente semplice controllarne l’applicazione da parte delle autorità ispettive.

A che punto siamo, invece, in Italia? Formalmente non c’è un obbligo a intervenire per legge, dato il tasso di copertura della contrattazione collettiva. Il 13 novembre 2023, in un’intervista a La Stampa, il Commissario Ue Nicolas Schmit ha però correttamente dichiarato: “la direttiva non dice che i paesi che hanno un elevato livello di contrattazione collettiva non devono introdurre il salario minimo. È vero, ci sono paesi come l’Austria o la Svezia che non ne hanno bisogno. Ma l’Italia è un caso particolare perché ha un tasso di copertura della contrattazione collettiva, ma al tempo stesso presenta settori interi con stipendi molto bassi. E dunque la questione si pone”. Se infatti il tasso di copertura della contrattazione collettiva in Italia è formalmente al 100%, questo dato ha bisogno però di essere interpretato. Innanzitutto, esso non coglie l’incidenza del lavoro nero, dell’informalità, del falso lavoro autonomo. Ci sono poi i contratti pirata, i contratti con bassi minimi retributivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (è il caso della vigilanza privata), i significativi ritardi nel rinnovo dei CCNL (specie nel terziario). Il quadro complessivo è inoltre quello di una stagnazione salariale decennale che ha pochi eguali in Europa.

La proposta di legge delle opposizioni parlamentari, con l’eccezione di Italia Viva, si muove in questo contesto. È possibile individuarne alcuni forti limiti: la mancanza di un’indicizzazione automatica, la previsione di sostegni pubblici (non meglio definiti) per le imprese tenute ad adeguarsi, la mancanza di un adeguato apparato sanzionatorio, l’esclusione del lavoro domestico – il quale meriterebbe una maggiore attenzione per evitare di reiterare l’invisibilizzazione delle lavoratrici migranti in esso impegnate e per aprire, al contrario, una riflessione sulla necessaria universalizzazione del welfare e della cura. La proposta presenta anche dei significativi meriti, come l’individuazione di un sistema peculiare di determinazione salariale: il trattamento economico complessivo definito dai contratti comparativamente più rappresentativi, il trattamento economico minimo stabilito dalla legge (per ora fissato a 9€ lordi). Una soluzione che permetterebbe a legge e contrattazione di rafforzarsi a vicenda, evitando possibili fughe dal sistema di relazioni industriali e al contempo supportando quest’ultimo laddove la negoziazione collettiva fa più fatica. Che due delle tre maggiori confederazioni italiane abbiano aperto all’introduzione del salario minimo (Cgil e Uil) è un segnale positivo. Una combinazione con l’estensione legale dei contratti più rappresentativi, vista anch’essa come prioritaria, potrebbe rappresentare un pacchetto complessivo a tutela del lavoro, per quanto riguarda il salario ma anche l’insieme delle garanzie normative stabilite dai CCNL. In altri paesi, come il Belgio, salario minimo ed estensione dei contratti convivono positivamente (c’è ancora anche la scala mobile).

Bisogna inoltre segnalare che, durante le crisi inflattive, il salario minimo può essere più reattivamente adeguato rispetto alle più complesse dinamiche negoziali tra le parti – rappresentando così uno scudo di protezione dall’aumento dei prezzi almeno per le componenti più deboli e vulnerabili della forza lavoro (quelle con una più alta propensione marginale al consumo e che spendono una quota più consistente del proprio reddito in energia e alimentari). Sarah O’Connor sul Financial Times e Vincenzo Maccarone in un capitolo del libro sull’inflazione curato da Mario Pianta uscito recentemente per Carocci hanno messo in risalto proprio questo aspetto, nel contesto dell’ultima crisi. Sempre Sarah O’Connor ha inoltre sottolineato l’importanza del salario minimo come misura di giustizia sociale e questo al di là di considerazioni sull’incremento della produttività. Che nel quotidiano della City si possa tranquillamente dibattere sulla possibilità di far crescere le retribuzioni anche al di là degli aumenti di produttività è un segnale interessante per il dibattito pubblico. Dibattito pubblico all’interno del quale si potrebbe recuperare anche la vecchia lezione di Sylos Labini sulla “frusta salariale”, dove gli incrementi degli stipendi possono essere visti come vincolo al capitale: evitare la via bassa alla competizione, investendo in attività a più alto valore aggiunto – mettendo così in moto anche la dinamica della produttività.

Naturalmente il salario minimo non va visto, ingenuamente, come panacea di tutti i mali o come la soluzione definitiva ai problemi del lavoro povero. Questo non solo perché, stante l’opposizione del governo in carica, difficilmente il traguardo sarà a breve raggiunto. Bisogna infatti parlare di part-time involontario (che colpisce principalmente le donne), di precarietà come driver ulteriore di moderazione salariale (come fa meritoriamente l’ex presidente dell’Inps Tridico nel suo libro su salari e pensioni), di specializzazione produttiva del paese, di appalti e subappalti, di enforcement. Il sindacato dovrebbe inoltre aprire una riflessione autocritica sulla propria proposta di tagliare il cuneo fiscale: policy costosa, che scarica la questione salariale sulla fiscalità generale e indebolisce lo Stato come attore della politica economica. Inoltre, nei paesi in cui il salario minimo è in vigore non mancano naturalmente problemi. In Olanda, ad esempio, esistono livelli inferiori di salario minimo per i lavoratori con meno di 21 anni e la letteratura ha dimostrato che sono diffusi i casi di sostituzione di forza lavoro per tenere più bassi gli stipendi. In Germania la ricercatrice Barbara Orth ha evidenziato come molti immigrati o studenti internazionali indiani o sudamericani lavorino come riders nella gig economy (non certamente nota per le garanzie occupazionali) dopo esperienze di iper-sfruttamento nelle cucine di ristoranti – dove venivano pagati meno della metà di quanto formalmente previsto dal salario minimo. In Francia, il nuovo primo ministro Attal ha espresso una critica nei confronti dell’indicizzazione automatica del salario minimo, vista come leva di “egualitarismo”.

Ad ogni modo, in Italia, il salario minimo è un necessario terreno di lotta. Il solo dibattito attorno ad esso ha esercitato una funzione di pressione nel settore della vigilanza privata, con aumento delle retribuzioni per via contrattuale. Non ancora sufficiente ad assicurare una vita dignitosa, ma comunque un segnale che le cose possono cambiare. Questa lotta va inserita in un quadro analitico complessivo e deve intrecciare altre rivendicazioni, come ad es. la regolarizzazione di lavoratrici e lavoratori migranti o la definizione di politiche migratorie democratiche che non istituzionalizzino la subalternità socioeconomica e legale. Il resto lo farà poi la capacità dei sindacati di rinnovarsi, di presidiare e di organizzare i settori a più alta incidenza di lavoro povero. Avere a disposizione strumenti in più, come il salario minimo, può essere di aiuto.