“Una stagione di riformismo intelligente: i rinnovi del CCNL terziario 1994-98” - La relazione di Claudio Treves

PACE, LAVORO, DIRITTI, SALARIO – Milano, 22 e 23 febbraio 2024
23 febbraio, Assemblea nazionale ‘Lavoro Società’ in FILCAMS-CGIL
“Un’aggregazione per far crescere la linea sindacale di classe in Cgil”


Relazione di Claudio Treves

“Una stagione di riformismo intelligente: i rinnovi del CCNL terziario 1994-98”.

 

Per poter fare una riflessione adeguata sulla stagione contrattuale del ’94-’98 è necessario avere presenti sia il contesto normativo entro cui si svolse, sia l’atmosfera culturale che attraversava allora il Paese e in particolare le organizzazioni di rappresentanza, sia sindacale che datoriale.

Siamo nel decennio della grande inflazione e dello sforzo italiano per raggiungere le condizioni per l’accesso all’Unione Europea in formazione (i Trattati di Maastricht sono del 1991); Tangentopoli è un evento recentissimo e ancora in corso, le formazioni politiche sono o profondamente travagliate (il PCI ha dato vita a due formazioni, il PdS e Rifondazione Comunista), o in esplosione (il PSI) o in lacerazione profonda (la DC, divisa tra destra cattolica e popolarismo cristiano), la Lega Nord è già una realtà in via di consolidamento, Berlusconi ha appena annunciato la sua “discesa in campo” (marzo 1993); in questo contesto di “fluidità istituzionale” la mafia sferra il suo maggiore attacco alla Repubblica, scegliendo la via stragista (Falcone e Borsellino, via Georgofili a Firenze, le chiese di Roma). E’ il tempo del primo dei governi tecnici che contrassegneranno l’Italia, guidato da Carlo Azeglio Ciampi, che sceglie l’interlocuzione con i sindacati confederali come leva sia per risanare il Paese (l’”ingresso in Europa”), sia – e forse soprattutto – per rinsaldarne la coesione sociale e anche morale. Così nasce il Protocollo sulla politica dei redditi siglato da tutte le rappresentanze sociali il 23 luglio1993, e oggetto di approvazione da parte dei lavoratori tramite una consultazione che si svolge dal 3 luglio (data della siglatura).

Il Protocollo – nella parte che qui interessa – rappresenta una sorta di “secondo tempo” e di riparazione per un altro Protocollo, sottoscritto l’anno prima (31 luglio), drammaticamente “imposto” alla Cgil e al suo segretario Trentin attraverso il ricatto del governo Amato, delle controparti, della Cisl, della Uil e della componente socialista della Cgil : in esso si sopprimeva la scala mobile, “compensata” con un elemento economico di Lit 20000 da non includere nelle paghe base e si congelava la contrattazione aziendale per 18 mesi. L e conseguenze nel mondo del lavoro furono enormi, e nella Cgil divampò una tensione altissima, acuita dalla contestuale lettera di dimissioni di Trentin, con la quale egli dichiarava di aver sottoscritto quel testo inaccettabile al solo scopo di non esporre la Cgil all’accusa di aver sabotato l’intesa e pertanto di essere responsabile della catastrofe (va ricordato che poche settimane dopo quella firma il governo svalutò la lira del 20%, introdusse un prelievo forzoso su tutti i conti correnti, pose le basi per la privatizzazione delle Partecipazioni Statali, introdusse la possibilità di soggetti privati in sanità), ma che così facendo di essere venuto meno al mandato ricevuto e pertanto dover rassegnare le dimissioni. Con il Protocollo del 23 luglio si tentò di recuperare un quadro di riferimento condiviso, che ricomponesse la frattura dell’anno precedente, rilanciando il ruolo delle parti sociali in un’ottica proattiva e non punitiva verso il lavoro: lo si fece definendo il quadro di controllo dell’inflazione entro cui si sarebbe sviluppata la contrattazione collettiva, stabilendone gli assetti e bilanciando con l’azione pubblica (investimenti e controllo dei prezzi e tariffe) quanto si veniva a cristallizzare sul piano macroeconomico. Detto più chiaramente si applicava la “politica dei redditi”, ipotizzando che i salari si sarebbero evoluti riferendosi ad un tasso d’inflazione programmato da definirsi trilateralmente (Governo, datori di lavoro, sindacati), con prezzi e tariffe che non avrebbero dovuto aumentare in misura maggiore del tasso programmato, la durata dei contratti nazionali sarebbe stata quadriennale con una verifica degli eventuali scostamenti tra i tassi inflattivi programmati e quelli reali da effettuarsi dopo un biennio, e la contrattazione “di secondo livello” (che voleva significare sia aziendale che territoriale) avrebbe dovuto riguardare materie non trattate nei CCNL ed avere quali elementi economici solo quelli di natura variabile e collegati a parametri di redditività. produttività, qualità della prestazione, cui si sarebbe applicato un regime fiscale vantaggioso e che non avrebbero avuto incidenza su altri elementi della retribuzione (mensilità differite, straordinario, ecc.). Al fine di assicurare uno svolgimento senza traumi dei rinnovi contrattuali si convenne che in caso di mancato rinnovo dopo tre mesi dalla scadenza del contratto precedente o dalla presentazione della piattaforma rivendicativa si sarebbe dovuto corrispondere ai lavoratori un’indennità di vacanza contrattuale pari al 30% del tasso d’inflazione programmato, che sarebbe salita al 50% se l’assenza di rinnovo si fosse prolungata oltre il sesto mese. Si aggiunse alla fine un codicillo allora molto apprezzato sia dal sindacato che dalla Confcommercio, che invitava il Governo ad emanare un provvedimento amministrativo per estendere alla generalità dei comparti interessati le condizioni economiche previste dai CCNL. Come si sa, non se ne fece nulla.

Un capitolo specifico del Protocollo riguardava il mercato del lavoro, prevedendo l’introduzione nell’ordinamento italiano del lavoro interinale (poi avvenuta con il Pacchetto Treu del 1997), insistendo fortemente sul ruolo della contrattazione collettiva e sulla natura temporanea del rapporto, e rafforzando l’allora principale e quasi unico rapporto “atipico”, il contratto di formazione/lavoro (in sigla il cfl). Va ricordato a tal proposito che il part-time era stato oggetto di normativa legale nel 1984, e sarebbe stato oggetto di molti interventi solo a partire dal 2000 (Decreto legislativo 61), mentre la disciplina contrattuale risaliva – per le imprese della grande distribuzione – al 1973 (accordi del Parco dei Principi), e per il CCNL al rinnovo del 1990.

Ultimo punto da ricordare, venne introdotto un sistema di rappresentanza dei lavoratori tuttora in vigore, sia pure con alcuni correttivi intervenuti nel frattempo, fondato sulle Rappresentanze Sindacali Unitarie, poi disciplinato dai rinnovi contrattuali successivi (per il terziario, quello del 1994).

Un’ulteriore premessa va ricordata, avvicinandoci in questo modo all’analisi dei CCNL del Terziario: parliamo esclusivamente di Confcommercio, perché allora la rappresentanza contrattuale ed istituzionale del mondo del terziario commerciale e turistico era unica, pur avendo al proprio interno tensioni spesso aspre tra “grandi” e “piccoli”, o tra settori (informatica, pubblicità), ma ciò non impediva un’azione interna ed esterna unitaria del mondo rappresentato. Per brevità non menziono qui né la Confesercenti né il mondo cooperativo, perché la prima firmò sempre i rinnovi in modo identico e successivo al testo Confcommercio, e la disamina della storia contrattuale del mondo cooperativo richiederebbe una trattazione a parte.

Siamo in grado adesso di analizzare i rinnovi del ’94 e del ’98, che faremo in modo sia distinto che comparato, a seconda del tema trattato.

 

  1. Relazioni tra le parti, bilateralità e mercato del lavoro

Il testo si apre con una Premessa, che riprende il riferimento al Protocollo del 23 luglio, richiamandone in sintesi scopi e finalità, e intendendo dare vita ad un sistema di relazioni di comune responsabilità, ed aggiunge per la prima volta una procedura per il rinnovo del CCNL al fine di disciplinarne lo svolgimento e conseguentemente anche lo spazio per l’azione di sostegno alle rivendicazioni: la piattaforma rivendicativa andrà presentata tre mesi prima della scadenza del CCNL, e per un periodo di quattro mesi successivi alla presentazione della piattaforma le parti non potranno dare corso ad azioni di  mobilitazione e/o di lotta, ma in caso di mancato accordo dopo tre mesi dalla presentazione della piattaforma varrà corrisposto ai lavoratori un elemento retributivo chiamato “indennità di vacanza contrattuale” pari al 30% del tasso d’inflazione programmato, che salirà al 50% se la carenza contrattuale supera i sei mesi. Com’è evidente, si tratta di un meccanismo volto ad incentivare comportamenti “virtuosi” per i rinnovi contrattuali, tali da farli diventare elementi di una “fisiologia delle relazioni tra le parti”, che purtroppo si è da tempo perduta: va ricordato che la stagione dei rinnovi del ’94 si svolse senza il ricorso allo sciopero, neppure in settori tradizionalmente conflittuali come i metalmeccanici. E se si vuole indicare una data per quella rottura la indicherei nel rinnovo del biennio dei metalmeccanici del 2000, primo di una stagione di accordi separati, poi proseguiti col Patto per l’Italia.

Segue la risistemazione dei diritti di informazione, da esercitarsi sia a livello nazionale per l’intero ambito contrattuale (interlocutori Confcommercio e Federazioni nazionali), sia a livello territoriale, che a livello aziendale per imprese con più di 400 a livello nazionale. I diritti d’informazione sono propedeutici alla contrattazione territoriale ed aziendale, che dovrà svolgersi (secondo le indicazioni del Protocollo del 23 luglio), su materie non trattate a livello nazionale, che nel ’94 vengono identificate per la contrattazione territoriale nelle questioni legate al mercato del lavoro (formazione e convenzioni per le fasce deboli), nonché nelle politiche degli orari (fissazione, articolazione e flessibilità degli orari), di cui appresso. In questo capitolo va inserita l’istituzione degli enti bilaterali, quali luoghi dove istruire ed esaminare le istanze relative a quelle materie, nonché all’esame dei progetti di formazione per le assunzioni a cfl. Non c’è un riferimento ad una contrattazione salariale (cosa che avverrà nel rinnovo del Turismo del 1999), e la costituzione degli enti è di competenza territoriale, salvo un riferimento al costituendo Ente bilaterale nazionale, le cui funzioni sono svolte fino al rinnovo successivo dall’Osservatorio nazionale. In questa parte è prevista la costituzione di strumenti bilaterali di monitoraggio e proposta (pari opportunità, tutela della dignità della persona, classificazione) e viene disciplinato sia il sistema di rapporti tra le parti per monitorare la corretta gestione del CCNL (Commissione paritetica), sia per i contenziosi individuali riguardanti l’interpretazione del CCNL (altra Commissione paritetica), entrambe oggetto di finanziamento di fonte contrattuale.

Questa parte nel 1998 viene sostanzialmente confermata riguardo ai diritti d’informazione e ai livelli contrattuali, ma viene significativamente ampliata la sfera della bilateralità, che assume un assetto più “logico” e coerente con un CCNL che delega materie al secondo livello: si costituisce infatti l’Ente Bilaterale nazionale, cui sono delegati i compiti di monitoraggio riguardo ai nuovi istituti previsti dal Protocollo del 23 luglio e successivi sviluppi (in particolare il lavoro temporaneo); e sovrintende alla costituzione degli enti bilaterali territoriali, che a loro volta diventano i luoghi di raccolta delle informazione sui nuovi rapporti (apprendistato riformato, anche se rimarrà presto sulla carta, interinale, formazione/lavoro); acquisisce e monitora le informazioni riguardanti l’articolazione degli orari.

Il rinnovo del ’98 modifica invece la parte relativa al contenzioso individuale, recependo i termini del D.Lgs.80/98 che aveva introdotto un tentativo obbligatorio di conciliazione da esperirsi alternativamente in sede sindacale o presso le Direzioni territoriali del Lavoro prima di ogni ricorso in magistratura, e disciplinando anche il ricorso all’arbitrato, definito di natura necessariamente volontaria da parte di entrambe le parti e da esperirsi sulla base della normativa legale e contrattuale applicabile (da notare che questo sarà un tema di ulteriori rotture tra la Cgil e i futuri Governi di centro-destra, ma che si profilò già nel mancato accordo su questi temi con Confindustria nel 1999, per giungere nel 2011 all’unica legge di governi di centro-destra che il Presidente della Repubblica rinviò alle Camere per manifesta incostituzionalità…).

Per quanto riguarda la contrattazione aziendale, nel ’94 si introduce la regola derivata dal protocollo del 23 luglio riferita alla natura che d’ora in poi dovrà avere la contrattazione salariale (variabilità dell’importo e collegamento con parametri di redditività, produttività e qualità del lavoro): si aprirà da questo momento una stagione di importanti rinnovi contrattuali soprattutto nella grande distribuzione in cui la categoria si è cimentata con creatività ed impegno a istituire meccanismi salariali in grado di assicurare da un lato la loro “comprensibilità” per i lavoratori coinvolti (il che ha significato la relativa marginalità degli importi riferiti a “redditività” visto che specie in caso di imprese multinazionali la composizione dei bilanci risulta oggettivamente di difficile intervento da parte delle rappresentanze sindacali), dall’altro al maggior legame possibile con gli interventi concordati tra le parti sull’organizzazione del lavoro (lavoro di gruppo, modifiche dei nastri orari e maggior o migliore utilizzo degli impianti), cercando di utilizzare al massimo i parametri di “produttività e qualità del lavoro”, per evitare che prevalesse la semplice valutazione sull’andamento di costo del lavoro e fatturato cui aspiravano le imprese. Un problema particolare rappresentò la discussione su dove misurare gli incrementi di produttività e qualità del lavoro, essendo chiaro che il parametro “redditività” doveva riguardare l’intero complesso aziendale (cioè tutti i lavoratori), mentre le modifiche all’organizzazione del lavoro erano (e sono) tipicamente agite a livello di singola unità produttiva. Ne scaturirono sistemi complessi, a volte fin troppo, e di non sempre facile  gestione, ma va ricordato lo sforzo prodotto dalla categoria perché fu segno di una stagione “creativa” di elaborazione sull’organizzazione del lavoro nella grande distribuzione, cui solo più tardi (dalla fine degli anni ’90) corrispose la reazione delle imprese volta a riguadagnare un controllo più completo sull’organizzazione del lavoro, grazie – anche – alle modifiche legislative sul mercato del lavoro che si venivano profilando, volte a rompere il delicatissimo equilibrio raggiunto col Protocollo del 23 luglio.

E’ giunto quindi il momento per affrontare queste problematiche nei rinnovi del ’94 e ’98.

Va detto che il capitolo “Mercato del lavoro” aveva già conosciuto una trattazione nei rinnovi precedenti, essenzialmente limitato alla definizione degli istituti del contratto a termine e del cfl, mentre l’apprendistato veniva lasciato sostanzialmente inalterato da molti anni. E’ da notare che il part-time era già trattato fin dal rinnovo del 1990 all’interno del capitolo sull’orario di lavoro, a differenza di quanto accadeva nei CCNL delle altre categorie, a riprova del fatto che si trattava (e si tratta) di un istituto “non atipico” nel terziario privato.

Per comprendere il senso delle disposizioni sul contratto a termine del ’94 e riconfermate nel ‘98 va ricordato che allora si prevedeva un ruolo sostanzialmente totale della contrattazione collettiva nel fissare le causali giustificative (derivante dalle disposizioni della legge 56/87), e pertanto il CCNL riprende la sistemazione “classica”: si può assumere a termine per incrementi di attività, stagionalità, sostituzione di lavoratori assenti. Interessante notare – rispetto al disastro attuale – che il CCNL fissa un minimo ed un massimo di durata (minimo un mese, massimo dodici), e introduce per tutti il diritto di precedenza vuoi rispetto a nuove assunzioni a tempo indeterminato che a ulteriori rapporti a termine. Si stabilisce altresì una percentuale massima del 10% sull’organico per il ricorso a tale tipologia d’impiego, che può essere modificata a livello di contrattazione territoriale e/o aziendale. Viene previsto un obbligo di comunicazione da parte dell’impresa alla Commissione dell’Ente bilaterale territoriale corrispondente, nella quale l’impresa deve dichiarare, oltre alla propria appartenenza a Confcommercio, l’integrale applicazione del CCNL e l’osservanza degli obblighi di legge in materia contributiva: nel caso la Commissione può richiedere ulteriori informazioni ed eventualmente sospendere la richiesta.

Segue la disciplina dei cfl, che distingue sia durata che quantità di formazione secondo il livello di inquadramento del lavoratore da assumere. Il sottoinquadramento è fissato in un livello, e si ripete la funzione di esame e controllo delle istanze da parte dell’apposita commissione dell’ente bilaterale.

Il rinnovo del ’98 aggiunge una causale interessate per ricorrere al contratto a termine, ossia la copertura dell’eventuale ricorso – da parte di una lavoratrice – al passaggio a part-time post maternità che viene appunto disciplinato per la prima volta con questo rinnovo, e di cui parleremo più diffusamente nel capitolo sugli orari; non modifica le norme sui clf, concentrandosi invece sull’introduzione del lavoro interinale (disciplinato allora dalla legge 196/97 - cosiddetto pacchetto Treu), e sull’apprendistato, oggetto allora di un profondo tentativo di modifica e rivitalizzazione che risulterà sostanzialmente sterile perché rapidamente soppiantato dalle modifiche introdotte con il successivo D.lgs. 276/03 (cosiddetta legge Biagi). Andando per ordine, seguendo quanto disposto dalla legge, si identificano in sostanziale assonanza con quanto previsto per il contratto a termine le causali per il ricorso al lavoro interinale, si escludono dal ricorso a questo rapporto di lavoro le figure inquadrate ai due livelli inferiori dell’inquadramento definite come “caratterizzate da esiguo contenuto professionale”, si fissa al 13% la percentuale massima di ricorso a tale istituto. Riguardo all’apprendistato, si modifica l’età massima per lo svolgimento di questo rapporto (da 20 a 24-26 anni), si introduce una retribuzione in percentuale, evolventesi nel corso della durata del rapporto dal 70 al’85% della retribuzione del lavoratore qualificato corrispondente,, si definisce la durata del periodo in 18 mesi per le qualifiche proprie del 5° livello, e 24 per quelle del 4°, graduando la formazione esterna a seconda del titolo di studio posseduto (da 120 ore per chi ha il titolo dell’obbligo a 60 ore per chi è in possesso della laurea). Si introduce poi uno “scambio” tra allungamento della durata del periodo di apprendistato a 36 mesi, estensione della possibilità di assumere apprendisti anche a livelli superiori al quarto, e conferma di almeno il 60% degli apprendisti assunti, da effettuarsi attraverso il ruolo della bilateralità del livello corrispondente. Come detto, di questo complesso di norme resterà poco per il successivo “irrompere” delle modifiche legislative di ispirazione più liberista ed autoritaria, ma è significativo di un approccio di “flessibilità regolata” con un ruolo regolativo della bilateralità che - almeno formalmente - poteva marcare un incoraggiamento ai comportamenti virtuosi da parte delle imprese e delle rappresentanze sindacali. Del resto, proprio su questa base fu possibile, per i rinnovi del 2003-4 “resistere” a quelle innovazioni e mantenere – specie su alcuni istituti – un assetto di tutele significativo, almeno fino alla successiva stagione di rotture sindacali e di mancati rinnovi.

 

  1. Orari di lavoro e part-time

Il tema dell’orario di lavoro è stato molto intrecciato nell’elaborazione della categoria con le disposizioni legislative, che fino alla liberalizzazione avvenuta con le “lenzuolate” di Bersani (primo Governo Prodi del 1997), regolavano l’apertura dei negozi. Di qui la necessità per le parti di regolare “modelli di orario” già nel CCNL, con possibilità, per il secondo livello, di adottare e/o integrare i modelli a seconda delle intese raggiunte sull’organizzazione del lavoro. Per questo, a partire dal rinnovo del ’90, nel CCNL si trovano modelli di fissazione dell’orario settimanale che variano dalle 40 ore “classiche” con pacchetto di permessi pari alle sei ex festività soppresse (48 ore), a sistemi di orario flessibili e/o ridotti a 39 e 38 ore, con conseguente utilizzo di parte del pacchetto di permessi e loro incremento col rinnovo del ’94 in modo da raggiungere le 38 ore di orario effettivo, fermo restando che ai fini contrattuali e di legge l’orario resta a 40 ore.  Schematizzando la disciplina è così sintetizzabile:

Orario di lavoro 40 ore 40 ore con flessibilità 39 ore 38 ore
Pacchetto permessi 72 ore, di cui 24 utilizzate/48 residue 72 ore, con 16 utilizzate/56 residue 72 ore, con 36 utilizzate/36 residue 96 ore, di cui 72 utilizzate/ 24 residue

La disciplina viene arricchita nel ’94 con la facoltà di ricorrere all’articolazione plurisettimanale dell’orario, in modo da assecondare le fluttuazioni dei flussi di vendita, inaugurando una linea contrattuale che ruoterà su diversi elementi:

  1. Il numero di settimane ammesse per lo sforamento e l’ampiezza dello sforamento stesso;
  2. La compensazione sia in termini di riduzione d’orario che di salario;
  3. La procedura da seguire per l’attivazione della flessibilizzazione dell’orario;

Nel ’94 si convenne un numero massimo di 16 settimane di sforamento a 44 ore, con pari compensazione di orario e settimane (16 settimane a 36 ore), con possibilità per il secondo livello di arrivare rispettivamente a 24 settimane a 48 ore di orario; ferma restando la titolarità della contrattazione a livello aziendale di misurarsi sul tema dell’articolazione dei nastri orari, la procedura prevedeva il vincolo per l’impresa di comunicare contestualmente ai propri dipendenti e all’Osservatorio territoriale della bilateralità l’articolazione annuale dell’orario annuale entro il 30 novembre dell’anno precedente.

Nel rinnovo del ’98 si aggiunge la banca delle ore, con la quale anche il capitolo sulla flessibilità dell’orario si arricchisce (e si complica), in quanto viene stabilità la devoluzione del 50% delle ore svolte in eccesso rispetto all’orario normale, nonché una quota di minuti (pari a 45 o 70 per ogni ora eccedente l’orario normale fino a rispettivamente le 44 o le 48 ore) incrementali rispetto alla quantità di ore di permesso rimanenti (24, come risulta dalla tabella) . Come si vede da questa ricostruzione, si è voluto trovare un equilibrio tra interessi confliggenti che la soluzione “puramente aritmetica” del ’94 non consentiva (tante settimane di sforamento/ altrettante di riduzione). In altre parole, con l’introduzione della banca delle ore si puntava ad introdurre “gradi di libertà” per i lavoratori riguardo alla possibilità di gestire con maggior autonomia individuale la prestazione lavorativa rispetto alla rigidità dell’orario.

In tale contesto la disciplina del part-time presentava particolare delicatezza. Infatti, se la normativa di legge, risalente come già ricordato alla metà degli anni ’80, si fondava sui principi di volontarietà e reversibilità della prestazione, la spinta delle imprese e la particolare fattispecie del lavoro in ambito commerciale, scandito dai flussi di clientela variabili nel corso della giornata, della settimana e dell’anno, puntavano ad una concentrazione degli orari per le persone a tempo parziale addensati nei momenti di maggior affluenza (sera, fine settimana, ecc.), il che poneva delicati problemi di bilanciamento tra esigenze contrapposte. Di qui da un lato la lunga storia di trattazione dell’istituto nella contrattazione collettiva di settore, risalente come ricordato al 1973 per la grande distribuzione e al 1990 per il CCNL, dall’altro la costante necessità di aggiornare la disciplina.

Nel rinnovo del ’94 si confermava l’assetto ereditato dal rinnovo precedente, definendo ile durate inferiore e superiore rispetto alla settimana, al mese, e all’anno; in particolare per quella ridotta settimanale, compresa  “di norma” tra le 12 e le 25 ore,  si dichiarava l’intento di “ricondurre la prestazione all’interno dei regimi di orario esistenti in azienda”, il che poteva cozzare, come si verificò, con la natura individuale del rapporto di lavoro, il che comportava che, salvo esplicita modifica del contratto individuale, l’inserimento dei lavoratori a part-time all’interno dei turni avvicendati non sarebbe potuto accadere. Si definiva la possibilità di svolgere lavoro supplementare, e se ne fissava la maggiorazione per il lavoro supplementare al 27%, forfettizzando così l’incidenza delle mensilità supplementari e delle ferie (8,33*3), che così sarebbero state erogate secondo la semplice regola della proporzionalità riferita all’orario ridotto.

Non stupisce, quindi, che nel rinnovo del ’98 la formula della riconduzione ai regimi d’orario sia stata fatta cadere, contemporaneamente all’aumento dell’orario settimanale minimo da 12 a 15 ore, e che la maggiorazione per il lavoro supplementare sia stata elevata al 35%, comprensiva dell’incidenza di tutti gli istituti contrattuali, tfr compreso. Si è inoltre introdotta un’ulteriore tipologia d’impiego a part-time, come già accennato, corrispondente alla facoltà, prevista da questo rinnovo, di trasformare il proprio rapporto da tempo pieno a part-time per il periodo post-maternità, con garanzia di ritorno automatico a tempo pieno a meno di diversa determinazione della lavoratrice. E ancora, norma che fece molto scalpore all’epoca, la facoltà di assumere a otto ore al sabato per studenti e lavoratori impiegati con altro rapporto a part-time. Tutte forme di “flessibilità regolata” per conciliare le esigenze d’impresa con gradi di autonomia da assicurare alle persone. Va sottolineato come questo impianto sia stato preso a riferimento per la trasposizione nella legislazione italiana della Direttiva Europea sul part-time, contenuta nel D.Lgs. 61/00 elaborato dal compianto Professor Massimo Roccella per conto del Governo italiano (allora presieduto da Massimo D’Alema), ed abbia resistito nel rinnovo del 2004 a fronte delle successive modifiche legislative già ricordate che abrogarono il citato decreto legislativo in favore di una normativa molto più in sintonia con le esigenze di utilizzo senza regole propugnate dalle imprese.

E con questo siamo giunti in certo senso a tirare le fila di quanto siamo venuti dicendo, e del perché abbia usato quel titolo alla presente rievocazione.

 

Conclusione

I rinnovi rievocati sopra si collocano in un contesto ampiamente scomparso e – oggi – difficilmente riproponibile, salvo profondi cambiamenti.

Da un lato un contesto istituzionale che riconosceva alle parti sociali un ruolo attivo, e puntava alle convergenze tra le opposte istanze, con un ruolo attivo in tal senso delle istituzioni e delle forze politiche; dall’altro le stesse forze sociali venivano ad essere sollecitate ad una funzione costruttiva e al tempo stesso attenta alle esigenze generali del Paese e delle controparti. Non dimentichiamo che fu la stessa Confcommercio nel 1996, in occasione del rinnovo del biennio economico del CCNL ad avanzare la necessità di normare “le nuove forme di lavoro”, e da ciò seguì la prima disciplina collettiva del lavoro da remoto (1997), e l’avvio di un confronto poi naufragato di disciplinare le collaborazioni coordinate e continuative (allora “scoperte” dalla riforma previdenziale del 1995). Insomma, si confliggeva, certo, ma si cercavano soluzioni al conflitto che non fossero semplicemente il riconoscimento della primazia di una parte e di un “punto di vista”. Ciò fu definitivamente sotterrato con l’avvento al Governo della coalizione di centro-destra e con le parole dell’allora Ministro Martino che da bravo allievo di Milton Friedman definì la concertazione un errore da non ripetere, perché foriera di un “diritto di veto delle organizzazioni sindacali” inaccettabile per chi riponeva nel solo mercato la garanzia delle soluzioni ottimali. Del resto, simili “venti di guerra” erano stati preannunciati fin dal 1999 con il mancato accordo sulla trasposizione della Direttiva europea sui contratti a termine, e sulla disciplina del contenzioso individuale, cui seguì nel 2001 quale “biglietto da visita” del Governo Berlusconi il D.lgs. 368 che eliminava le specifiche causali di legge per attivare un contratto a termine sostituite dal “causalone” (“esigenze di carattere tecnico, produttivo, sostitutivo”): seguì il Libro bianco sul mercato del lavoro redatto da Biagi e colleghi sotto la supervisione di Sacconi e la battaglia del Circo Massimo in difesa dell’articolo 18, sfociata poi nel Patto per l’Italia e la lunga stagione della rottura sindacale. Ed è rimarchevole sottolineare come nella stagione di resistenza dei rinnovi contrattuali del 2003-2004 alle novità introdotto col D.Lgs.276 il rinnovo del terziario si distinse per la tenuta di un’impostazione che ho cercato di riassumere in queste note. Dopo, purtroppo, le ragioni di rottura prevalsero.

Non sarebbe tuttavia onesto se non indicassi anche quelle che -a mio modestissimo giudizio- sono le ragioni interne al modello qui descritto che lo resero debole a fronte delle forze avverse: essenzialmente direi che la debolezza maggiore del modello del 23 luglio sta nell’obiettivo perseguito, ossia la cristallizzazione dei rapporti di forza (e della conseguente ripartizione delle risorse) fra capitale e lavoro. Specie a fronte di modifiche rilevantissime sul piano delle tecnologie e delle ragioni di scambio internazionali, immaginare di mantenere inalterati i rapporti tra le classi si dimostrò un’aspirazione impossibile da realizzare; bastò infatti il venir meno dell’azione calmieratrice della mano pubblica, e poi il cambio di maggioranza e di “cultura”, perché i rapporti tra i salari e gli altri redditi subissero a partire dalla seconda metà degli anni ’90 una discesa che ancor oggi non si è stati in grado di recuperare.

Più nello specifico, vorrei segnalare come l’ipotesi di rinnovi basati su tassi d’inflazione programmati (sia pure con il recupero biennale) non fosse strutturalmente in grado di intervenire ad es. sulle scale parametrali e quindi sui percorsi di miglioramento delle competenze (e dei riflessi anche salariali) dei lavoratori, lasciando così spazi eccessivi all’unilateralità delle imprese. Se si aggiunge la scelta esplicita del Libro bianco di attaccare le tutele dei lavoratori come condizione affinché l’Italia potesse reggere alla sfida della globalizzazione si comprende perché quel modello non potesse che entrare in crisi. Resta – tuttora – un vuoto strategico su come lo si possa rimpiazzare, viste le inadeguatezze di quanto è stato fatto riguardo al modello di contrattazione, sia con accordi non unitari (2009), sia unitariamente (il Patto del 2018). Ma questa è un’altra storia.