"La festa non si vende": il primo maggio della Filcams - di Paolo Repetto

Ad acuire i drammi della precarietà e del non lavoro ci ha pensato il governo Monti, che dispose la totale liberalizzazione delle aperture domenicali e in corso di festività all’articolo 31 del decreto “salva Italia”. Quell’articolo mostrava anche un ottimo effetto collaterale: sferrare l’ennesimo attacco al sindacato, e in special modo all’odiata Cgil, mettendo in discussione il riposo festivo ed il suo significato per un’organizzazione che difende i diritti durante gli orari di lavoro e il rispetto della dignità umana in ogni sua forma nel corso degli altri tempi di vita.
L’offensiva nei confronti del principale sindacato italiano, in questa circostanza, è stata rivolta specificamente alla sua categoria più esposta, ovvero la Filcams, che notoriamente tutela i lavoratori del commercio, del turismo e dei servizi e che da anni rivendica la chiusura degli esercizi commerciale la domenica e durante le festività (a partire dal Primo Maggio).
Quest’anno, poco prima della festa dei lavoratori, la categoria ha dunque lanciato la sua iniziativa, racchiusa nello slogan “La festa non si vende, si vive”. Tante manifestazioni hanno poi animato la protesta, allegra e indignata nello stesso tempo: a Perugia, Terni, in Toscana, Abruzzo, Veneto, ma anche a Milano, Bologna, Ferrara, Piacenza, Modena, Lecco.
La Filcams ha approfittato delle iniziative per stilare un bilancio ad un anno di distanza dall’entrata in vigore del decreto “salva Italia” e della deregolamentazione imposta dalle liberalizzazioni; un bilancio tutt’altro che positivo.
“In questo periodo - afferma la Filcams nazionale in una nota - la profonda innovazione con cui veniva promossa e accolta da molte parti la norma sulle liberalizzazioni mostra il suo vero volto e le sue contraddizioni: le liberalizzazioni non hanno creato occupazione aggiuntiva nel settore, non hanno creato ulteriore ricchezza per le aziende, recupero di produttività-redditività, non hanno prodotto miglioramenti per le condizioni di reddito e di vita delle lavoratrici e lavoratori”.
I dati ufficiali tra l’altro parlano di un altro ‘risultato’: la chiusura di migliaia di esercizi commerciali nel 2012 e nel primo trimestre del 2013, in una logica di concorrenza sempre più aspra a cui le piccole e medie strutture di vendita non riescono a far fronte rispetto alle grandi catene commerciali. Le quali a loro volta stanno comunque soffrendo per effetto di una crisi che acuisce i suoi effetti.
Il versante che parla alle lavoratrici e lavoratori è ancora più drammatico: nell’ultimo periodo si sono persi centinaia di posti di lavoro e continua il ricorso agli ammortizzatori sociali, dalla cassa integrazione al contratto di solidarietà. Le liberalizzazioni hanno espanso il tempo ed invaso ogni spazio peggiorando le condizioni di vita, sempre più condizionata dalla spirale del ‘sempre aperto’ con nuove e continue riorganizzazioni dei turni di lavoro e di acutizzazione di un ritmo che deve garantire l’apertura e il servizio 365 giorni l’anno.
Tra l’altro il costo per sostenere il ‘sempre aperto’ viene scaricato sulle lavoratrici e i lavoratori: “Per molti dipendenti - prosegue il sindacato - le aziende chiedono di rivedere le condizioni di riconoscimento economico dettato dalla contrattazione integrativa aziendale o territoriale, cercando di contenere il costo del lavoro, e per quei lavoratori che ‘hanno l’obbligo del lavoro domenicale’ c’è l’aggravante di non avere più la disponibilità di un giorno festivo durante l’anno”.
E’ necessario, conclude la Filcams, ripristinare un sistema che restituisca alle amministrazioni locali una corretta programmazione anche delle aperture; per evitare che le liberalizzazioni rappresentino soltanto un costo sociale che si ripercuote sulla qualità della vita dei cittadini-elettori, compresi quelli che nel filone di pensiero liberista si riconoscono.
Sostenere che “la festa non si vende, si vive” è apparsa infatti come un’affermazione di buon senso prima ancora di uno slogan utile per una sacrosanta battaglia sindacale. Eppure i cantori della cosiddetta “modernità” sembrano provare gusto a forzare sempre più la rima con inciviltà.
Proprio contro questa logica, la categoria della Cgil ha affondato il colpo riportando all’attenzione la priorità del lavoro e della sua civiltà. I diritti (al riposo, ad una diversa qualità della vita, alla partecipazione e ad un lavoro ‘’buono’) non rappresentano una variabile dipendente: sembra incredibile doverlo rimarcare subito dopo il Primo Maggio.


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