Renzi, una ne fa, mille ne dice - di Frida Nacinovich

Il Dio creò il mondo in una settimana, Matteo Renzi rivoluzionerà l’Italia in mille giorni. Il premier di Rignano sull’Arno sostiene che in poco meno di tre anni il paese tornerà a crescere. Nel maggio 2017 gli elettori potranno giudicare l’operato del governo renziano. Non prima. Nel mezzo restano una serie infinita di problemi da risolvere: un’economia ferma non soltanto in Italia ma in gran parte del continente europeo; una disoccupazione ben oltre i livelli di guardia per chi il lavoro un tempo l’aveva, e un tasso tragico - oltre il 40% - per i giovani che escono dalle scuole e dalle università; una deindustrializzazione che non lascia molte speranze di una inversione di rotta. In questo contesto, uno si aspetterebbe che il presidente del Consiglio prendesse in mano la situazione, tornando a parlare – dopo molti anni di imbarazzanti silenzi – di politiche industriali. Invece, almeno fino ad oggi, l’agenda politica del governo ha previsto soltanto riforme costituzionali, a partire da quella assai discussa e molto discutibile del Senato. Mentre l’inquilino di palazzo Chigi colleziona slide e slogan di facile presa per i social network, gli operai fanno sciopero della fame davanti alle fabbriche chiuse (la Lucchini di Piombino); assediano il manager di turno che ha redatto un piano industriale da seicento licenziamenti (la Ast di Terni); manifestano a Roma perché l’unica fabbrica italiana di alluminio viene chiusa dalla multinazionale di turno (la Alcoa di Porto Vesme).
Alla fine di agosto Renzi, fra un gelato e un annuncio, si è fatto vedere in Europa per ottenere la nomina del ministro degli Esteri italiano, Federica Mogherini, ad alto commissario dell’Unione europea per le politiche internazionali. Il problema è che la politica estera la fanno gli Stati, non l’Ue. Sarebbe bello veder cambiare registro al vecchio continente, ma anche i bambini di terza media – almeno quelli interessati alla materia – sanno che non andrà così. Casomai sono le politiche economico-monetarie ad essere ormai di dimensione europea, specialmente nell’area dell’euro. Ma qui le uniche speranze di Roma (ma anche di Atene, Parigi, Madrid, Lisbona...) sono affidate a Mario Draghi. Il presidente della Banca centrale europea sta provando a convincere Germania, Olanda, Finlandia che così non si può andare avanti, visto che la crescita quando c’è è microscopica e si è già manifestata la piaga della deflazione. Ma da quell’orecchio le capitali nordiche – Berlino in testa – proprio non ci sentono. Forse è per questo che le baldanzose promesse renziane di primavera hanno lasciato il posto al più comprensibile messaggio di andare avanti passo dopo passo. Non propriamente uno spot che invita all’ottimismo. Tant’è.
L’estate più piovosa degli ultimi anni – almeno al centro-nord – sta finendo. “Un anno se ne va”, cantavano i fratelli Righeira. Una brutta annata per l’Italia, anche per i gioielli agro-alimentari nazionali del vino e dell’olio. Ma quella che si avvicina è una nuova stagione che minaccia di essere perfino peggiore. Continua a piovere sul bagnato. E l’immacolata camicia bianca del premier italiano rischia di essere rapidamente macchiata dalla quantità di problemi che l’esecutivo di palazzo Chigi dovrà per forza di cose affrontare. I sindacati confederali hanno già avvertito che andando avanti di questo passo – cioè restando fermi, ndr - l’autunno potrebbe essere caldissimo. E non sarà con le battute – caratteristica in cui indubbiamente il premier eccelle – che si potranno spegnere i fuochi degli operai in bivacco di fronte alle loro fabbriche chiuse. Anche gli industriali iniziano a chiedersi se l’attuale inquilino di palazzo Chigi sia la persona più adatta a governare una fase oggettivamente difficile come quella odierna, nonostante che il decreto Poletti e l’annunciato jobs act siano provvedimenti che vanno dalla loro parte. Ma il partitone tricolore difende come un sol uomo il suo segretario, guai a chi lo tocca. Ma il partitone democratico, già di suo numeroso alla Camera e al Senato, può contare anche sull’appoggio esplicito del Nuovo centro destra di Angelino Alfano e di quello implicito della vecchia-nuova Forza Italia di Silvio Berlusconi. Le opposizioni non hanno grandi margini di manovra, per giunta il Quirinale continua ad assicurare un esplicito appoggio alle larghe intese renziane.
Non c’è alternativa, ribadiscono quotidianamente i sostenitori del governo. Ai loro occhi un’altra Italia è impossibile. Ma quello che vediamo è un paese che continua, dati alla mano, ad essere ripiegato su se stesso, sperando che prima o poi passi la lunghissima nottata iniziata nell’ormai lontano 2008. E “chi visse sperando morì non si può dire...” cantava un giovane Piero Pelù, non ancora accusabile di anti-renzismo perché allora Renzi era un semplice studente, nello stesso liceo del front man dei Litfiba. E la rottamazione era solo quella delle automobili con tanto di incentivi statali.


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