CGIL: la posta in gioco - di Andrea Montagni

Conferenza di organizzazione

La CGIL terrà entro l’anno la conferenza di organizzazione. Ancora non è chiaro se sarà un operazione di maquillage o se sarà il luogo di decisioni meditate per rispondere alla nuova esigenza di rappresentanza di un mondo del lavoro sempre più frammentato e reso debole dalla crisi e dalle modifiche del quadro legislativo sul lavoro, volute dal governo liberista di Matteo Renzi. Nel “disegno” del Presidente del Consiglio il futuro dei sindacati è delineato: sindacati corporativi e possibilmente collaborazionisti in azienda, “rivendicatori” in sede sociale del salario minimo di legge e di provvidenze per i lavoratori, regolamenti unilaterali decisi dalle associazioni padronali al posto dei contratti nazionali di categoria. Sindacati ininfluenti sulle grandi scelte politiche, economiche e sociali. La divisione tra i sindacati aiuta e anche la frammentazione delle organizzazioni padronali serve allo scopo. Marchionne insegna! E dietro, a seguire, la miriade di scissioni da Confcommercio, da Confapi e compagnia cantando.
La CGIL difende un modello sindacale vertenziale, contrattuale e confederale. Categorie e confederazione sono le due gambe per la stessa politica e non si possono escludere a vicenda. Dunque, rispetto alla Conferenza di organizzazione, il problema non è se serve più confederazione. Quello che occorre è più confederalità. La contrattazione inclusiva è lo strumento per riaffermare questa confederalità e spingere le categorie ad una sinergia che deve avere non una base burocratica, ma una base sociale di unità di classe nei luoghi di lavoro e nel territorio, attraverso le camere del lavoro sedi di confronto e di impegno comune e non centri burocratici di controllo e di gestione.
E se le condizioni economiche impongono una politica più accorta nell’utilizzo delle risorse e delle persone a disposizione dell’organizzazione, questo deve diventare una leva per ricorrere di nuovo con forza e determinazione al volontariato delle delegate, dei delegati, degli attivisti dello SPI.
Qui, per me, si pone il problema della democrazia e della partecipazione. La democrazia “diretta” nei grandi numeri maschera il plebiscitarismo, il cesarismo e la passivizzazione delle masse, ma nei piccoli numeri, nel reparto, in azienda, in ufficio, nel quartiere, nel paese dove il rapporto tra dirigente sindacale e lavoratore e pensionato, disoccupato, precario è diretto, in quel caso partecipazione e voto sono strumenti diretti di verifica dell’agire sindacale e delle competenze e delle scelte.
Occorre decentrare dunque risorse, energie, ma anche sedi decisionali. In questo modo si potrà respingere anche l’attacco di chi in nome della democrazia si presta alla trasformazione del sindacato confederale da strumento di emancipazione e di organizzazione di classe, scuola di lotta politica in un’altra cosa per quanto “radicale” possa apparire…

 


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