Schiavi e caporali - di Giovanni Mininni

Le morti sul lavoro di questa estate in Puglia e Piemonte, di braccianti italiani e immigrati, hanno mostrato quanto sia estesa la piaga del caporalato non solo nel Mezzogiorno. I cimiteri di Villa Literno, Castel Volturno e dei paesi agricoli del circondario hanno tombe senza nome. Sono quelle di tanti immigrati che vengono trovati ai bordi delle strade di campagna, spesso "scaricati" lì perché sono morti durante il lavoro in campagna o in un cantiere.

Le morti di questa estate non sono avvenute durante il trasporto: i braccianti sono morti mentre lavoravano in condizioni inumane e sottopagati. Il caporalato è solo un anello. Il problema è spezzare la catena dello sfruttamento e del ricatto nel quale sono prigionieri le operaie e gli operai agricoli in molte zone del nostro Paese.

I caporali non esisterebbero se non ci fossero imprese che utilizzano questo sistema e che lo aiutano a crescere e ad estendersi. Il caporalato garantisce lavoratori "disciplinati" e "disponibili" ad essere sottopagati e senza orario. Garantisce il trasporto fino al campo di lavoro per la giornata, “gestisce” il lavoro.

Grazie alla FLAI CGIL e a giornalisti coraggiosi è emersa la verità degli ultimi omicidi.

Gli ipocriti dimenticano che già nel 2008 un coraggioso libro inchiesta di Alessandro Leogrande (Uomini e caporali, viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud) denunciava le condizioni di lavoro nelle campagne pugliesi e la "sparizione" di decine di lavoratori, anche polacchi, che osavano ribellarsi ai caporali o morivano di lavoro. Si finge di non conoscere i dati del Rapporto dell'Osservatorio “Placido Rizzotto” della Flai Cgil, che parlano di quanto sia esteso lo sfruttamento.

Il sindacato c’è, denuncia, interviene e lotta.

Una legislazione che trasformasse in legge le richieste di FLAI CGIL, FAI CISL e UILA sul lavoro agricolo di qualità e l’estensione della legislazione antimafia nel contrasto al caporalato sarebbe positiva.


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