Che il no sia no - di Andrea Montagni

Siamo in presenza di un processo di semplificazione della comunicazione. Nella foga di essere chiari alle volte vengono detti e scritti spropositi. Qualcuno gli spropositi li dice e li scrive apposta. Ma questo è un altro discorso.

Se non sei semplice a comunicare, a volgarizzare ci pensano quelli che ascoltano e riferiscono. Estrapolano una frase, un inciso, da un discorso articolato e lo trasformano in una affermazione perentoria.

Non conta cosa si dice, ma come si dice.

E’ una modalità barbara e antidialettica di comunicare che ha come obbiettivo, consapevole o meno, la mortificazione delle capacità di riflessione e discernimento.

Il ragionamento, l’esposizione dei fatti, il collegamento tra gli stessi, la valutazione delle cause e degli effetti, l’utilizzazione di una chiave di lettura dichiarata (nel nostro caso la lotta di classe) consentono di arrivare alle conclusioni di un ragionamento, motivare una scelta, renderla condivisibile con altri. La discussione nel sindacato avviene ancora sostanzialmente così. I “riti” collettivi della discussione della decisione rispondono a questa modalità. O perlomeno, è ancora largamente così.

Ma c’è anche altro. Questa modalità di confronto e di posizionamento può celare anche ambiguità, distinguo che possono contribuire a costruire unità interna, ma che vanno a scapito della possibilità di costruire una posizione che tutti possano facilmente comprendere.

Il 24 maggio, il Direttivo nazionale della CGIL ha approvato, con due voti contrari e un astenuto, un documento che smantella la controriforma costituzionale. “Inadeguata”, “controproducente”, “negativa”, si scrive, e fin dalla premessa, il “giudizio è critico”. Ma la parola No non compare mai.

Il referendum si avvicina.


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