La contrattazione collettiva "inclusiva" - di Vincenzo Bavaro

La questione di ordine teorico che s’impone nell’economia politica riguarda il connotato principale che deve avere il sistema economico-politico nel tempo in cui occorre chiedersi a quale livello di sviluppo è il capitalismo. Da più parti si dice che il capitalismo dell’età della globalizzazione è a un punto di svolta; ci si dovrebbe chiedere se anche il suo ultimo ciclo – quello che usiamo chiamare neo-liberismo – sia ancora florido o se è anch’esso ad un punto di svolta (per non dire di crisi). Sappiamo per certo, però, che qualcosa è cambiato in ragione di oggettive condizioni economico-politiche prodotte da questo ciclo di sviluppo economico. Non spetta a noi in questa sede analizzarle ma appoggiarci alle ormai numerose voci che denunciano senza alcuna reticenza che il livello di diseguaglianze è arrivato a un livello che non si era mai raggiunto, quantomeno dal secondo dopoguerra in poi.

Ecco il carattere principale dello sviluppo delle economie capitalistiche: la diseguaglianza. Ed essa non è frutto di un processo oggettivo bensì di un processo politico-ideologico in cui tale diseguaglianza è il prodotto delle istituzioni politiche, sociali e giuridiche. A questa diseguaglianza – opposta alle politiche egualitarie tipiche dello Stato sociale – corrisponde un modello sociale che rompe il vincolo solidale (che è il presupposto dell’eguaglianza). La rottura dei vincoli di solidarietà è la leva della diseguaglianza; la rottura dei vincoli collettivi lascia spazio all’individualismo proprietario, alla retorica della libertà individuale per rompere la solidarietà collettiva.

E quando gli individui sono lasciati da soli, forse i più forti emergono trovando linfa, ma di certo i deboli soccombono. La diseguaglianza fa si che i deboli sono esclusi dalla «effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (come invece sancisce l’art. 3, comma 2 della Costituzione italiana). La diseguaglianza è perciò incompatibile con la democrazia perché la disuguaglianza è esclusiva; a differenza dell’uguaglianza che è inclusiva.

Questa relazione fra individualismo, diseguaglianza ed esclusione (e al contrario, fra solidarietà, eguaglianza e inclusione) è il paradigma con cui possiamo osservare ogni sottosistema sociale, e quindi anche il sistema delle relazioni industriali e del mercato del lavoro. Il diritto del lavoro del ciclo economico neo-liberista è un diritto che tende all’individualismo, anche se – per fortuna – non è riuscito a compiere questo passaggio. Tuttavia, è un diritto che ha perseguito la diseguaglianza esclusiva frammentando lo statuto giuridico del Lavoro, come soggetto della produzione. La diseguaglianza esclusiva è perseguita attraverso la progressiva rottura dello statuto generale di regolazione del lavoro.

Si tratta di una tendenza che ha origine nella seconda metà degli anni ’70 con la progressiva de-legificazione nel diritto del lavoro perseguita attraverso la c.d. “flessibilità contrattata”. In cosa è consistito il lungo ciclo della legislazione del lavoro derogata dalla contrattazione collettiva? Si è trattato di un progressivo arretramento della norma generale (la Legge) per far spazio alla norma comune (quella del contratto collettivo) che però, lo si rammenti, è una norma di rango privato, seppur collettivo.

Non intendo dire che quando la legge devolve funzioni normative al contratto collettivo si è in presenza di un fenomeno di individualizzazione; però è innegabile che la norma collettiva è “speciale” rispetto alla norma generale; differenzia la condizione.

Sia bene inteso: differenziazione di condizione non vuol dire sempre e soltanto diseguaglianza di condizione. Ma così non è in base al grado e al livello e alla ragione della differenziazione. Voglio dire che se la differenza è richiesta dal livello di specializzazione produttiva di una condizione di lavoro, allora la differenza è necessaria. Facciamo un esempio: sarebbe altamente improduttivo è lesivo dell’efficienza del lavoro stesso se non si permettesse di differenziare gli inquadramenti e mansioni nei processi produttivi. Come fare a valorizzare le differenza fra il lavoro nel settore del credito con uno del trasporto ferroviario? Sarebbe giusto qualificare i lavoratori dei pubblici esercizi allo stesso modo dei lavoratori della grande distribuzione? Qui la differenziazione risponde a criteri micro-economici di valorizzazione del lavoro nei diversi cicli produttivi.

Il problema si pone quando il livello di differenziazione arriva a differenziare il valore della qualificazione fra trasporto ferroviario e Ferrovie dello Stato; fra grande servizi fiduciari e multiservizi, ecc. ecc. Insomma, il problema dello scivolamento dal piano della differenza per specializzazione produttiva a quello della diseguaglianza per condizioni di mercato/produzione si fa più chiaro quando riflettiamo sul problema della parcellizzazione degli statuti giuridici contrattuali; quando riflettiamo sugli oltre 250 contratti collettivi nazionali di categoria vigenti nel sistema confederale cui partecipa anche la CGIL.

Non sto riportando nulla di diverso da quanto le stesse parti sociali hanno ammesso nel c.d Patto della fabbrica del 2018 e che anche nel recente passato ci si è posti come problema: il tema è quello degli accorpamenti contrattuali e della ricomposizione di un quadro contrattuale divenuto ormai estremamente frammentato.

Si tratta di problemi che richiedono un approccio molto accorto sul piano tecnico perché si devono affrontare delicati problemi di scrittura delle parti notoriamente poco trattate. Mi sto riferendo al fatto che occorre riflettere con molta attenzione sul tema dei perimetri contrattuali e sui casi di sovrapposizione fra ambiti di applicazione dei CCNL e anche nei casi di sovrapposizione di profili professionali negli inquadramenti.

Facciamo alcuni esempi: se prendessi in esame un’azienda del settore ICT (Information and Communication Tecnology) essa potrebbe trovare spazio regolativo nel Contratto dei metalmeccanici (per l’antica tradizione che colloca in quest’area l’informatica), in quello delle telecomunicazioni e in quello del terziario. Sono consapevole che la Fiom, la Slc e la Filcams possono dare spiegazioni più che comprensibili del perché nei rispettivi contratti ci sia spazio per accogliere un’impresa ICT. Sta di fatto che questa differenza può tradursi nella paradossale condizione per cui un lavoratore ICT può ritrovarsi con ben tre differenti condizioni di lavoro, in base al contratto applicato dalla sua azienda.

Insomma, siccome – giustamente – i processi produttivi si evolvono e mutano nel tempo, così le infrastrutture normative contrattuali devono essere capaci di adeguarsi. A me pare che sia giunto il tempo (direi che c’è urgenza) di aggiornare i perimetri di regolazione, magari rinnovando la vecchia tradizione dei contratti di categoria generale con le discipline speciali di settore.

Questo problema così sommariamente presentato riguarda la pluralità dei contratti nazionali nel sistema confederale. Ci sono poi altri fattori che provocano la frammentazione della fonte di regolazione contrattuale del lavoro fra i quali mi pare opportuno segnalarne tre: 1) la frammentazione del sistema di rappresentanza delle imprese; 2) la frammentazione del sistema contrattuale la moltiplicazione di sigle sindacali che sottoscrivono contratti c.d. pirata; 3) la diffusione caotica della contrattazione decentrata.


1) Sulla frammentazione della rappresentanza delle imprese.

Prendiamo in esame le situazioni effettivamente riscontrabili nel sistema di relazioni industriali confederale comparativamente più rappresentativo. Se con la formula «categoria contrattuale» intendiamo riferirci a quel segmento economico-produttivo caratterizzato da una certa affinità merceologico-produttiva, dovremmo chiederci perché mai nella stessa categoria possono sussistere diversi contratti nazionali. Ovviamente riconosco che nella tradizione del sistema di relazioni industriali si è sempre differenziata la disciplina contrattuale delle grandi aziende dalle piccole aziende; e queste sono state differenziate dalle imprese cooperative. Si tratta di differenze che trovavano giustificazione nelle oggettive diverse condizioni di mercato e di organizzazione dei processi produttivi: insomma, è evidente che un ipermercato è cosa diversa da un piccolo esercizio di quartiere. Il fatto è che queste differenze avevano il loro riflesso nelle diverse associazioni di rappresentanza delle imprese, cioè nelle controparti che consentivano al sindacato di stipulare diversi contratti collettivi in base alle diverse categorie contrattuali, cioè alle diverse esigenze tecnico-produttive.

Ma se la rappresentanza delle imprese diventa ibrida? Se questo sistema di rappresentanza delle imprese in un medesimo settore merceologico-produttivo non si articola più (almeno non più in prevalenza) sulla base di una razionale ripartizione interna di caratteristiche tecnico-produttive ma spesso finiscono per coprire aree contrattuali contigue, se non proprio identiche? Insomma, c’è il sospetto che i diversi contratti nazionali di categoria presenti in uno stesso settore merceologico-produttivo, derivano semplicemente da una frammentazione della rappresentanza associativa delle imprese. Ne sanno bene qualcosa le organizzazioni sindacali del terziario che hanno dovuto fronteggiare la scissione delle imprese della grande distribuzione dalla storica organizzazione del commercio; e sanno anche bene che questa scissione ha portato con se la spinta a un ennesimo contratto nazionale.

Si tratta, dunque, di affrontare un tema che ormai è sul tavolo delle relazioni industriali italiane e che è stato a lungo trascurato: la ricomposizione della rappresentanza delle imprese, o quanto meno la ricomposizione della contrattazione nazionale di categoria capace di includere tutte le anime di un settore merceologico produttivo. Non mi nascondo che si tratta di un tema su cui il sindacato dei lavoratori può poco, essendo un problema che attiene alla rappresentanza delle imprese. Però, al sindacato spetta il compito di invertire la tendenza alla frammentazione dello statuto giuridico del lavoro e che oggi si esprime prima di tutto attraverso la frammentazione dei contratti collettivi nazionali di categoria.

Ovviamente, porsi questo obiettivo non significa ignorare l’esigenza di differenziare la regolazione in base alle specificità organizzative che differenziano – ripeto – un ipermercato facente part di una multinazionale rispetto a un piccolo esercizio di quartiere. Ma la differenza di trattamento deve derivare dalle esigenze tecniche di specializzazione organizzativa e produttiva e non dalla mera frammentazione della rappresentanza.

Questo aspetto ci rimanda alle altre due questioni che ho prima annunciato.

 

2) Sulla frammentazione contrattuale “pirata”.

Il problema della frammentazione della rappresentanza diventa grave e perciò urge risolverlo allorché volgiamo lo sguardo al di fuori del perimetro delle rappresentanze comparativamente più rappresentative, sia sul fronte delle imprese sia su quello dei lavoratori. Ormai è a tutti noto che il CNEL ha accertato che vigono oltre 700 contratti nazionali di categoria; poiché circa un terzo di questi è ascrivibile alle Confederazioni sindacali maggioritarie (e – come ho detto – già potrebbero essere troppi) mi pare evidente che la frammentazione della rappresentanza ha prodotto una frammentazione contrattuale tanto accentuata che rendono evidente a tutti quanto grave sia il problema di diseguaglianza nelle condizioni di lavoro e – di conseguenza – di esclusione da un medesimo minimo livello di disciplina delle condizioni di lavoro.

Sappiamo che la soluzione di questo problema passa attraverso una legge sulla misurazione della rappresentatività delle associazioni sindacali e imprenditoriali, come presupposto per arrivare a una legge di attuazione dell’art. 39 Cost. per riconoscere il contratto collettivo con efficacia erga omnes (come, per esempio, fa la Carta dei diritti della CGIL). È bene sapere che il disegno di legge Catalfo sul salario legale in Italia si muove in questa direzione: stabilire che il salario rispettoso dell’art. 36 Cost. è per tutti quello previsto dai contratti collettivi nazionali stipulato dalle parti comparativamente più rappresentative, significa includere nella disciplina salariale di livello mediamente più adeguato tutti i lavoratori di quel settore: insomma, mi pare si possa parlare di una bella contrattazione inclusiva! Perciò mi auguro che si possa arrivare quanto prima a una legge così fatta.

In fin dei conti, si tratta di valorizzare prassi già esistenti nel sistema giuridico nazionale nei casi delle imprese cooperative ai fini della determinazione del minimo retributivo oppure come nei casi degli appalti pubblici. Solo che proprio in tema di appalti pubblici occorre essere avvertiti del fatto che spesso le procedure di gara non sono sufficientemente ligie nel rispetto dei contratti nazionali da applicare e – fenomeno ormai diffuso – quand’anche ci si trovi di fronte a imprese concorrenti che applicano i contratti nazionali confederali, esse competono sui differenziali di costo legittimati proprio dai diversi contratti di categoria. Come si vede, riaffiora il problema della disparità pur nel sistema confederale.

 

3) Sulla contrattazione decentrata.

L’ultima questione cui voglio accennare riguarda, però, la struttura della contrattazione che, così com’è oggi, affida solo alla contrattazione collettiva nazionale – quella che soffre già di eccessiva frammentazione – la funzione perequativa e inclusiva. Eppure, non solo il contratto nazionale include all’interno di perimetri che tendono a diventare sempre più stretti – come abbiamo visto – ma è diventato anche un perimetro da cui è possibile uscire. Non dobbiamo dimenticare che il contratto nazionale di categoria pone certo un argine alla aziendalizzazione della disciplina del lavoro, ma si tratta di un argine che è comunque travalicabile. Il sistema contrattuale interconfederale comparativamente più rappresentativo ha incluso il dispositivo delle clausole di deroga. Sappiamo bene che le deroghe sono talvolta una necessità: lo sono di certo quando occorre affrontare una situazione di crisi; sono meno comprensibili le ragioni per cui l’avvio di nuove attività per nuova occupazione possa comportare deroghe al contratto nazionale.

Il sistema delle deroghe è – per definizione – un sistema che esclude dall’applicazione della norma comune. È bene rammentare allora che il vero filtro all’uso accorto di tali prassi contrattuali “esclusive” deve essere rappresentato dall’affidabilità della rappresentanza sindacale che accompagna questo sistema di regole. Se la contrattazione deve avere come obiettivo primario includere, occorre che la contrattazione in deroga, quella che esclude, sia messa in opera da un sistema di selezione dei soggetti in grado di assicurare la massima affidabilità; ancora una volta, la lotta per l’inclusione e contro l’esclusione ci riporta alla rappresentanza.

Certo, se poi non è più tema di discussione politica quantomeno la modifica (se non proprio l’abrogazione) dell’art. 8 del d.l. 138/2011, il livello decentrato di contrattazione continua a essere un livello di contrattazione esclusivo anziché inclusivo.

Questo, però, non vuol dire che proprio al livello decentrato non si possa attivare una contrattazione autenticamente inclusiva, che valorizzi in modo positivo e inclusivo la contrattazione decentrata. Se la contrattazione è strumento di organizzazione del processo produttivo, l’ambito di regolazione deve corrispondere al processo produttivo, cioè alla linea di produzione di valore e di cui è parte il lavoro. Insomma, una contrattazione che aspiri a regolare e disciplinare il processo di produzione di valore (com’è sempre stato fin dall’origine) non può limitarsi ad avere come perimetro la sola e semplice Azienda, intesa come Persona giuridica e non, invece, come processo produttivo di valore. Noi conosciamo la contrattazione aziendale, la contrattazione in cui la controparte è la singola Azienda e in cui si regola il lavoro dei suoi dipendenti.

Il fatto è che il processo produttivo che produce valore, sempre più frequentemente, non è fatto da una sola Azienda e i lavoratori coinvolti nella produzione di valore non sono sempre e soltanto i dipendenti di quell’Azienda. Insomma, la contrattazione Aziendale classica esclude segmenti importanti per il processo di produzione di valore.

Ecco perché da diversi anni si continua ad evocare altri innovativi livelli di contrattazione decentrata quali la filiera, il distretto, il sito, la rete. Si tratta di livelli di contrattazione che devono passare dalla evocazione alla applicazione costante e continua affrontando le difficoltà oggettive ma anche le resistenze soggettive.

Le difficoltà oggettive sono quelle di mettere assieme in una contrattazione decentrata segmenti ai quali, quasi sempre, vengono applicate regole differenti derivate da differenti contratti nazionali di categoria. Lo sa bene proprio una organizzazione come la Filcams che spesso rappresenta proprio i segmenti di lavoro esclusi dalla contrattazione principale dei siti o filiere produttivi nei quali vengono inseriti. Una contrattazione decentrata di questo tipo deve essere in grado di trovare il punto di congiunzione fra le diversità derivanti dal livello nazionale. In questa prospettiva, allora, le deroghe al contratto nazionale acquisiscono una diversa funzione: non più semplicemente esclusiva dal CCNL ma permettono una funzione inclusiva della contrattazione decentrata.

Per farlo, però, occorre superare le angustie formali e statutarie sulla competenza contrattuale categoriale o territoriale, sulla titolarità negoziale e quant’altro di simile. Occorre sperimentare con urgenza forme inclusive di rappresentanza adeguate al perimetro del processo produttivo di valore; forme inclusive di definizione di perimetri contrattuali decentrati che mettano a valore tutto il Lavoro necessario al funzionamento di quel processo. Occorre cioè mettere in discussione innanzitutto un assetto organizzativo nelle relazioni industriali decentrate per contaminare le antiche competenze; per “inter-categorializzare” (diciamo pure, “confederalizzare”) la rappresentanza e la contrattazione.

Tutto ciò sarebbe anche di straordinario giovamento per le platee tradizionalmente escluse da processi di contrattazione decentrata. Innanzitutto perché ciò consentirebbe di rinnovare e rivitalizzare la contrattazione territoriale inclusiva della enorme platea di piccole aziende, normalmente escluse dalle dinamiche contrattuali. La valorizzazione dei distretti, delle filiere e delle reti di imprese, come ambito di contrattazione, può rappresentare una innovazione nella concezione stessa della territorialità, adeguandola alle esigenze produttive.

In questo rinnovato perimetro del decentramento, proprio includendo le platee aziendali di piccole dimensioni alle imprese più grandi, troverebbe un rinnovato vigore la funzione della bilateralità e del più generale welfare contrattuale. Occorre, cioè, utilizzare le infrastrutture di cui è già dotato il sistema di relazioni industriali per rinnovare il loro utilizzo adeguandolo alle forme nuove della produzione di valore. 

Concludo con una chiosa finale. Mi pare evidente, dunque, che parlare di contrattazione inclusiva significa parlare di una nuova impostazione di tutto il sistema di relazioni industriali, in un orizzonte che – peraltro – va anche oltre i confini nazionali. Il tema della ricomposizione e riunificazione per l’eguaglianza inclusiva si spinge fino dove c’è produzione di valore e lavoro: e questi due fattori non si fermano ai confini sulle Alpi italiane. Ma intanto, occorre agire coerentemente la dove si può.


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