I democratici e la rivoluzione italiana: dalla guerra per bande al “fare massa” - di Giuseppe Rizzo Schettino

I primi passi del socialismo in Italia (1)

Sarà un caso, ma è un fatto che i nostri tre maggiori teorici militari risorgimentali di pensiero democratico si chiamassero Carlo. Medesima, ma meno casuale, almeno per i miei occhi, fu la loro fine. In ultimo, tutti e tre ebbero a che fare con Giuseppe Mazzini. Parlo di Carlo Bianco, Carlo Pisacane e Carlo De Cristoforis.

Carlo Bianco nacque a Torino il 10 aprile 1975. Primogenito, ebbe tre sorelle. Persi i genitori nel giro di due anni, nel 1799 e nel 1801, ereditò del padre il titolo di conte di Saint Jorioz. Venne affidato agli zii materni, che lo allevarono in un ambiente di elevata cultura per il Piemonte di quei tempi. Basti dire che suo cugino Federico Sclopis sarà il futuro storico della legislazione piemontese. Avviato agli studi giuridici, li lasciò per arruolarsi il 10 gennaio 1815 nei Dragoni del Re. Di stanza ad Alessandria, nel 1818 sposò Adelaide Bonsignore, che, sempre nello stesso anno, gli diede Alessandro, l’unico figlio. La sera del 9 marzo 1821, in casa di Luigi Baronis, capitano del suo reggimento, giurò la Costituzione di Spagna del 1812, quella stessa notte guidando nell’assalto alla Cittadella i Dragoni del Re che, in tre anni di attiva cospirazione, aveva convinto a partecipare al moto piemontese scoppiato ufficialmente proprio con quel decisivo attacco. Il mattino seguente, firmato il proclama che annunciava l’adozione della sospirata Costituzione, stimato ufficiale, entrò a far parte della Giunta provvisoria di governo presieduta da Guglielmo Ansaldi. Promosso tenente colonnello, alla testa di 270 Dragoni, seguì verso Novara il piccolo esercito che l’8 aprile 1821, alla Bicocca, affrontò gli austro-sardi. Di fronte alla sconfitta, non gli rimase che salpare da Genova sulla fregata “La Speranza” alla volta della Spagna ancora in lotta per le libertà costituzionali reclamate a Cadice il 1° gennaio 1820. Il 21 luglio 1821 la Regia Delegazione lo condannò a morte per alto tradimento. La pena venne eseguita per impiccagione in effigie subito dopo. La condanna prevedeva anche la confisca dei beni.

Per il suo valore, Bianco fu messo a capo del Battaglione Lancieri che, affiancato alle tre compagnie capitanate da Giuseppe Pacchiarotti, costituì l’apporto italiano alla causa costituzionale che impegnò gli spagnoli dal 1820 al 1823. Con i suoi uomini si distinse in vari fatti d’arme a Vich, Olot, Pineda e Plan de la Calma. Entrato nello Stato Maggiore di Rafael de Riego, la bandiera di quella rivoluzione, il 23 maggio 1823 diede alta prova di sé nella decisiva battaglia di Matarò. Evaso dalla prigionia a cui andò incontro, si stabilì a Malta. Qui iniziò a comporre le pagine che lo hanno reso il primo italiano ad aver messo sotto forma di trattato la guerra per bande. Partendo dalla constatazione che gli italiani non avrebbero mai potuto affrontare una guerra di liberazione con un esercito regolare e permanente, in primis perché, anche a causa della loro secolare divisione, non lo avevano, poi perché non avrebbero potuto formarlo in breve tempo e, infine, perché, quand’anche lo avessero formato, non sarebbe stato istruito a tal punto da opporlo, quanto meno alla pari, a quello austriaco, il torinese affermava che essi avrebbero dovuto scatenare non la “guerra grossa”, ma bensì la “guerra di parte”, come era chiamata anche la guerra per bande, guerra che, tra l’altro, egli ricordava essere stata di già combattuta in Italia nel 1799 e, specialmente in Calabria, nel 1806, in funzione antifrancese. A questo proposito, essendo più ricco di catene montuose, valli remote, fiumi tortuosi e boschi, secondo Bianco, il nostro paese era molto più adatto a combattere per bande della Spagna, che si oppose vittoriosamente alle armate napoleoniche nella sua guerra d’indipendenza, l’altro e più importante contenitore di notizie da cui egli attinse per i suoi assiomi. In più il suo carattere di penisola, avrebbe costretto inevitabilmente l’esercito nemico ad allungarsi, a lasciare i suoi quartieri, a sguarnire le spalle, ad aumentare il vuoto dietro di sé, offrendo innumerevoli occasioni per essere attaccato alla spicciolata, nelle sue retrovie, tagliandone le comunicazioni, snervandolo e portandolo a uno stato di disfacimento, a cui avrebbe contribuito la terra bruciata che gli italiani gli avrebbero fatto progressivamente intorno. Come in Spagna, Bianco faceva notare che anche in Italia vivevano popolazioni rurali adatte a combattere tale guerra, per la quale occorrono un buon passo, frugalità ai limiti estremi e un’ottima conoscenza del territorio da battere. Fatto salvo per i connazionali di fede monarchica, il bacino da cui attingere per la formazione delle singole unità, secondo i calcoli di Bianco, ammontava all’intero popolo italiano, venti milioni di uomini, donne, anziani e bambini, soprattutto contadini, che l’amore di patria avrebbe fatto scendere in campo, avvelenando i pozzi, indicando le spie, offrendo rifugio, facendo staffetta, offrendo indicazioni sulla posizione del nemico, fino ad arrivare a sacrificare il raccolto, bruciandolo piuttosto che lasciarlo allo straniero. Sui nemici dell’unità e dell’indipendenza d’Italia, Bianco non ci andava tanto per il sottile. Visto il tradimento che avevano perpetrato nella rivoluzione piemontese a cui aveva partecipato, essi andavano eliminati fisicamente, come tutti quelli che al nuovo regime democratico si fossero opposti. A Bianco mancava però una riflessione più approfondita sulle molle che avrebbero potuto far muovere veramente alla lotta i contadini italiani. Forse anche per la sua formazione giuridico-alfieriana, non faceva riferimento al loro desiderio di migliorare, ai loro interessi materiali, alla loro atavica aspirazione alla terra. I suoi accenni a ricompense sotto forma di onorificenze, pensioni e terra erano infatti più una reminescenza delle ricompense che ricevevano i militi delle legioni romane. Una volta avviata la guerra per bande, grazie anche al lavoro delle società segrete, che il torinese testimoniava essere operanti proficuamente da tempo sul nostro territorio, sarebbe stato facile, a suo modo di analizzare, dopo i primi successi, coinvolgere tutti gli italiani e a quel punto formare intere e più colonne di combattenti, che, unendosi da più punti, avrebbero, infine, potuto combattere, in un unico esercito di popolo, la battaglia campale decisiva contro lo straniero. Bianco non lo dice in nessun punto del suo trattato, ma il Condottiero Supremo della guerra nazionale d’insurrezione italiana da lui trattata, avrebbe voluto essere tanto lui. Anche perché egli scrisse il suo libro dandogli una connotazione di manuale a uso e consumo degli adepti che stava raccogliendo man mano che lo scriveva. Bianco era rimasto in contatto con molti rappresentanti di varie società segrete, tanto da riuscire a mettersi a capo degli “Apofasimeni”, che in greco significa “disperati”, “pronti a tutto”, setta che aveva suoi affiliati in Toscana, Emilia Romagna, Liguria e Francia. Non appena gli arrivarono gli echi delle Tre Gloriose Giornate di Luglio, volendo portarsi nel cuore della mischia, pronto ad agire per l’Italia, nel settembre del 1830 Bianco sbarcò a Marsiglia. Qui pubblicò subito, anonimo, il suo libro, dandogli il titolo che lo rese famoso e che tutti conosciamo: Della guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia.
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