Primo Maggio: Giornata internazionale di lotta e “Pasqua dei lavoratori” - di Maria G. Meriggi

Il I maggio è stato il giorno di festa e di lotta più rappresentativo dei movimenti dei lavoratori, socialisti, comunisti, laburisti. Nei paesi del cosiddetto “socialismo reale” era occasione per l’esibizione della forza che si credeva definitivamente raggiunta. Negli anni Sessanta e Settanta in cui i movimenti sindacali europei e soprattutto italiani sembravano aver squilibrato a loro favore i rapporti di forza sociali è stato la grande festa in cui gruppi politici e partiti dei lavoratori portavano ognuno la sua voce, il suo specifico linguaggio. Oggi un impressionante mutamento culturale prima ancora che politico sembra voler negare un secolo di conquiste e di riforme nelle quali si è affermata l’idea secondo la quale la pura appropriazione privata della ricchezza prodotta dalla cooperazione sociale deve essere limitata e corretta da una redistribuzione che si giustifica non sulla base della semplice carità pubblica ma dei diritti del lavoro. L’impresa si vanta della sua potenza prometeica, anche quando distrugge i legami sociali. Il I maggio dunque riacquista tutto il suo significato, fondativo di una nuova e piena cittadinanza.

Qualche cenno storico può aiutarci a capire come questa giornata sia – senza retorica – la sola data davvero unificante nella lunghissima storia dei mondi del lavoro organizzati. Innanzitutto la battaglia per le 8 ore nasce negli Stati Uniti e si sviluppa a lungo fra Usa e Australia. Negli Usa degli anni Ottanta del XIX secolo e dell’inizio del XX non mancavano le piccole e medie imprese basate sullo sfruttamento della fatica di giovani e donne e con scarsi investimenti iniziali – le cosiddette “fabbriche del sudore” ma quel sistema economico entrava nella sua seconda rivoluzione industriale in cui i massicci investimenti e la complessità tecnica e scientifica dei processi produttivi avrebbero potuto permettere la riduzione della giornata lavorativa. Il primo maggio dunque nasce in un territorio agitato da massicce migrazioni, dalla formazione di una classe operaia plurinazionale spesso divisa ma anche attraversata dalle spinte autonome e ribelli dei movimenti anarchici. Che qualche volta venivano da nuclei di origine europea che però negli Usa avevano trovato naturalmente il movimento operaio come territorio d’insediamento e di propaganda. I rapporti fra questi movimenti i cui metodi e aspirazioni proseguono negli Industrial Workers of the World, il grande sindacato internazionalista dei non qualificati attivo dagli anni ’10 agli anni ’20 e i sindacati di mestiere organizzati da Samuel Gompers – nato in Inghilterra da genitori ebrei olandesi – furono spesso difficili e conflittuali. Ma il “gomperism” fu combattuto dagli imprenditori americani negli anni della “caccia ai rossi” dopo la prima guerra mondiale con feroce e orgoglioso classismo.

In Europa il I maggio viene adottato come giornata di lotta internazionale in occasione del congresso di fondazione della Nuova Internazionale (che noi chiamiamo Seconda Internazionale) a Parigi nel 1889 e a partire dal 1890 studiare il I maggio impone di calarsi nelle peculiarità delle storie sociali dei diversi movimenti operai, nelle loro culture politiche, nelle specifiche relazioni con i partiti della sinistra istituzionale e con gli stati.

Questo campo di studi era stato percorso con grande intelligenza anticipatrice dal lavoro di Andrea Panaccione, che dal 1885 al 1990 ha coordinato il progetto internazionale di ricerca sul primo maggio per la fondazione Brodolini. I risultati di quel progetto sono stati in parte raccolti in vari volumi, fra cui ricordo La memoria del I maggio (Marsilio 1988) e Un giorno perché. Cent'anni di storia internazionale del I maggio, (Ediesse 1990) ma soprattutto quel gruppo di lavoro aveva cominciato a studiare in modo innovativo la nascita di un circuito, di una cultura internazionale condivisa definita dalla circolazione di immagini, di parole d’ordine, di comportamenti, di stili di lavoro collettivo. Aveva partecipato alla elaborazione di una storia sociale dei movimenti operai, un cantiere troppo in fretta disertato da molti dei suoi artefici nella crisi politica degli anni Novanta. Da quelle pagine emerge il brulichio ricco e contradittorio delle pratiche dei movimenti. In Europa rivendicare le 8 ore era davvero una scelta politica forte: le condizioni pratiche e contrattuali erano molteplici, gli orari ancora molto lunghi, la precarietà del lavoro diffusa e contrastata solo dal possesso del mestiere e non da garanzie contrattuali universalistiche. La riduzione dell’orario alludeva quindi insieme a una “politica economica dal basso” che permettesse di aumentare l’occupazione dividendola e a una richiesta di tempo per se stessi – per la vita personale, la cultura, il rapporto con la natura, e l’organizzazione. Se prima della grande guerra riduzioni di orario si conquistano contrattualmente in singole situazioni, una richiesta generalizzata di riduzione d’orario assumeva necessariamente il peso di una rivendicazione politica carica di immagini dell’avvenire in cui convergevano anche le tradizioni presenti nella lunga durata delle mentalità popolari riassumibili nella “Pasqua dei lavoratori”, riscatto collettivo e festa di primavera. L’aspetto festivo lo possiamo, forse, oggi ritrovare nel rito del grande concerto romano, tante volte criticato ma a cui oggi tutti vorremmo poter partecipare, ritrovando la gioia dell’“assembramento”?

Comunque, soprattutto a causa della crisi profonda delle forme di rappresentanza politica delle sinistre che si richiamano al mondo del lavoro, il I maggio continua ad essere la festa dei lavoratori che vogliono civilizzare il mondo per sé e di conseguenza per tutti quelli che vogliono dare un senso al proprio percorso nella storia.

 


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