I democratici e la rivoluzione italiana: dalla guerra per bande al “fare massa” - di Giuseppe Rizzo Schettino

Alle origini del socialismo in Italia

[La prima parte di questo saggio è stata pubblicata, con il titolo “Alle origini del socialismo italiano”, sul numero 1 di “reds” del gennaio 2020, ndr]

La Guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia di Carlo Bianco vide la luce nella stamperia di Jules Barile, dagli stessi torchi dai quali più tardi uscirono i fascicoli della Giovine Italia. Non se ne conosce precisamente la tiratura, ma sappiamo che 200 volumi raggiunsero Napoli e 500 Livorno. Le autorità sarde seppero della sua pubblicazione il 22 novembre 1830, grazie a un’informativa arrivata a Torino da quelle napoletane. La Regia Segreteria per gli Affari Interni di casa Savoia individuò presto nel Nostro l’autore dello scritto. Predisposte le misure per impedirne la diffusione, sovrano e ministri lessero i suoi due volumi in sedicesimo agli inizi del 1831. Il 3 gennaio 1832 Carlo Alberto annotò nel suo diario: “Bianco Piemontais, auteur de l’infame ouvrage de la guerre des bandes”. Il fatto è che il libro di Bianco aveva avuto un notevole successo. Il 23 aprile 1831 “L’Avenir”, in un lungo articolo, intitolato Des sociétés secrète en Italie, di Charles de Coux, se ne era occupato ampiamente, sottolineandone il carattere altamente “terroristico” e “antireligioso”.

A Marsiglia Bianco frequentava assiduamente la casa di Prospero Pirondi, punto di riferimento in città per molti dei nostri fuoriusciti politici, residenti o di passaggio. Egli si legò d’amicizia in particolare con Domenico Nicolai, autore delle Considerazioni sull’Italia, libro che, insieme a quello di Bianco, prima degli scritti di Giuseppe Mazzini, contribuì maggiormente a inoculare nel nostro esulato politico d’oltre confine la cosiddetta triade, l’insieme cioè delle idee di unità, indipendenza e libertà.

In questo ribollio di pensiero e azione, con un articolo apparso sulle colonne della parigina “Révolution”, il 14 ottobre 1830 Filippo Buonarroti fece però sapere della sua presenza nella capitale francese e della sua disponibilità a lavorare con tutti quei patrioti pronti a battersi per stabilire l’uguaglianza e la sovranità popolare nella penisola. Con una lettera di raccomandazione stilatagli da Pirondi, Bianco si presentò all’anziano autore della Conspiration pour l’Égalité dite de Babeuf, pubblicata a Bruxelles nel 1828, opera nella quale il pisano rendeva giustizia alla memoria del suo fraterno amico Gracco Babeuf e al suo tentativo di riportare la Rivoluzione francese nell’alveo giacobino, andato in scena e fallito nel maggio 1796, fra la fine del 1830 e gli inizi del 1831. Nel loro confronto i due rivoluzionari convennero su tutto, ma specialmente su un punto. La Rivoluzione francese per l’uno e le rivoluzioni piemontese del 1821 e spagnola del 1820-23 per l’altro, avevano portato i due a concludere che il processo che avrebbe fatto del nostro paese una Repubblica unita e indipendente, necessitasse di una direzione pura, convinta e decisa, che, rigettati il moderatismo, il possibilismo, il gradualismo e il provincialismo imperanti in larghi strati del nostro patriottismo risorgimentale in esilio, desse alla nazione una Costituzione democratico-ugualitaria e la portasse a elezioni libere soltanto dopo essersi assicurata, attraverso un periodo più o meno lungo di dittatura rivoluzionaria, che i nemici del cambiamento non potessero più nuocere.

Tornato a Marsiglia con l’intento di organizzare un fronte più ampio rispetto alla setta che dirigeva, da mandare alla pugna sulla base della tipologia di lotta armata teorizzata nel suo trattato, dietro un tricolore aggiornato, al centro del quale campeggiasse, insieme alla triade, anche l’idea di uguaglianza, Bianco fece la conoscenza del giovane Mazzini, il quale si presentò a lui spinto dalla stima che nutriva per il suo passato rivoluzionario, la sua fede schiettamente repubblicana, la sua preparazione militare e perché aveva letto il suo libro, del quale si era letteralmente innamorato, al punto che la guerra per bande rimarrà un suo credo fin oltre il 1848. Senza batter ciglio, Mazzini entrò nei suoi “Apofasimeni” con il nome di battaglia di “Cassio”.

Bianco era così importante nel cuore del genovese che, quando di lì a poco fondò la Giovine Italia, lo volle nella sua Congrega Centrale come esperto di cose militari. Per lui egli aveva in mente un ruolo ben preciso: avrebbe ricoperto la carica di Comandante Supremo del tentativo rivoluzionario nel quale Mazzini programmava di gettare quanto prima gli aderenti alla sua Società per rendere l’Italia unita e liberarla dallo straniero e dai tiranni. A sua volta Bianco riversò i suoi militi apofasimeni nella neonata organizzazione, perché intuì che il futuro giocava per essa. Egli prese il nome di “Ghino di Tacco”. La Giovine Italia era un partito politico sotto tutti i punti di vista, si può dire il primo della nostra storia, perché aveva un segretario (Mazzini), una segreteria (la Congrega Centrale), un manifesto (l’Istruzione generale per gli affratellati alla Giovine Italia) e un giornale (i Fascicoli della Giovane Italia). Entrarvi non era difficile, per lo meno non come nelle sette, altrettanto conoscere il suo programma e leggere, mano a mano che si definiva, il suo pensiero. Ed è sul terzo numero dei suoi fascicoli che apparve un articolo che testimonia ulteriormente la devozione di Mazzini a Bianco e alla sua guerra per bande. Si tratta di poche pagine nelle quali il genovese la riassumeva e la dichiarava agli iscritti e agli italiani come il metodo rivoluzionario al quale si sarebbero dovuti conformare e che avrebbero dovuto perseguire a tutti i costi. L’articolo si intitolava Della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia. Visto il successo che ebbe, non potendogli fornire le 620 pagine in due volumi delle quali si componeva l’opera che lo aveva ispirato, Mazzini decise che i suoi giovani italiani avrebbero dovuto impararla sotto forma di un pratico manuale, piuttosto che di un esiguo fascicolo. Subito ne propose l’ideazione a Bianco, chiedendogli di estrapolarlo dalla sua Guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia. Fu però in corrispondenza della preparazione del Manuale pratico del rivoluzionario Italiano che si consumò il loro divorzio politico, sancito dal seguente commento, che Mazzini espresse a proposito del torinese a un suo strettissimo collaboratore nel febbraio del 1833: “Ho scritto a Bianco le mie ragioni, e gli ho proposto di sopprimere tutta la parte morale, teorica, e attenersi alla materiale, pratica – 2° d’incaricare me, noi insomma della redazione. […] In fatto di principi lo credo dotato di alcuni principi profondamente sentiti: non intelletto agile: non vedute estese: cervello ristretto, come in generale son tutti i buonarrotisti, montagnard del 1833. Se in Italia nasceranno clubs e partiti certo verrà il momento in cui avremo, temo, a schierarci sotto opposte bandiere – è terrorista, e terrorista per sistema, non per cuore”.

Fino a quel febbraio 1833 Mazzini non si era accorto o, forse, aveva chiuso un occhio su di una cosa fondamentale. Il Bianco al quale aveva chiesto la redazione di un agile manuale sulla guerra per bande, da fornire agli iscritti alla Giovine Italia in particolare e agli italiani in generale, non era più l’autore della Guerra nazionale d’insurrezione per bande applicata all’Italia fondata sulle triade al quale si era affezionato, ma, dopo la sua conoscenza dell’anziano babuvista, un buonarrotiano convinto, un montagnardo. Per di più Bianco aveva tentato di inserire nel Manuale pratico del rivoluzionario Italiano in fieri, il capitolo XI del suo libro, intitolato Sistema generale di depurazione, in cui, corroborato dalle istanze egualitarie con le quali era entrato in contatto, teologizzava l’eliminazione fisica di tutti gli avversari della rivoluzione nazionale, da effettuare prima della promulgazione della Costituzione repubblicana. Per questo lo definì “terrorista per sistema, non per cuore”. Nel modo che abbiamo visto, Mazzini ottenne un duplice risultato. Da un lato, adottato un programma politico rivolto prevalentemente alla borghesia nostrana, non permise a un robespierrista, a un buonarrotiano quale era Bianco, di spaventarla, facendole leggere, su di uno scritto ufficiale, uscito dai torchi della sua Società, addirittura un manuale su come fare una rivoluzione, che egli si sarebbe battuto anche per l’uguaglianza, operando per di più un periodo di terrore. Non volendo essere tacciato, senza ombre che ne suggerissero anche il benché minimo dubbio, di giacobinismo, per questo motivo impose a Bianco di attenersi nella stesura a una forma “materiale, “pratica” e non anche a una “morale, “teorica” del manuale in questione. Ma non solo. Per un secondo verso, così facendo, nella corsa per il timone del nostro repubblicanesimo risorgimentale, Mazzini si liberò dell’unico attore politico di una certa caratura, Buonarroti, che avrebbe potuto soffiarglielo. Non era difficile arguire che Bianco avesse avuto dall’ultimo e più grande rappresentante in vita della queue de Robespierre l’incarico di operare al suo interno con il fine preciso di spostare a sinistra il baricentro della Giovine Italia, che, invece, rimase, d’autorità, saldamente patriottico-formale, come gli contesteranno dopo il ‘48 i nostri primi socialisti, Carlo Pisacane e Giuseppe Ferrari.

Come solo accade fra uomini di un certo spessore o di altri tempi, la rottura fra Mazzini e Bianco fu soltanto politica, non operativa e umana. Dopo aver partecipato al tentativo insurrezionale mazziniano scattato dalla Savoia nel febbraio del 1834, come Comandante in Seconda del manipolo di uomini che nei piani del genovese, alla guida dello sciagurato Gerolamo Ramorino, avrebbero dovuto incendiare l’Italia al grido di indipendenza e unità, tentativo che, come è noto, fallì miseramente, Bianco, con sua moglie e suo figlio, fuggì a Bruxelles, dove, da lì in poi, condusse una vita grama, nonostante fosse un conte, di Saint-Jorioz, da centomila lire annue di rendita. Per godere di una seppur minima pensione mensile, calcolata sul totale della sua considerevole fortuna, e così uscire dall’indigenza, nella quale si affannava ogni giorno, fu costretto a un passo che, lui repubblicano, non avrebbe voluto mai compiere: chiedere la grazia a Carlo Alberto. Dopo il netto rifiuto del re, la mazzata finale gliela diede suo figlio, che si arruolò inaspettatamente nel Piemonte Reale Cavalleria. Stanco per l’esistenza che conduceva, Bianco si suicidò, buttandosi in un canale, il 9 maggio del 1843.

(segue prossimamente)