Non solo banchieri. Ebraismo e proletariato a fine ‘800 - di Salvo Leonardi

Di quel “sinistro miscuglio di semi-verità e confuse superstizioni” (Arendt), che fra Otto e Novecento anima l’immaginario antisemita, due miti si sono rivelati particolarmente virulenti; quello dell’ebreo banchiere e quello del giudaismo bolscevico (il primo lungo tutti e i due secoli, il secondo pervicacemente dopo il ’17 fino ad oggi). A saldarli, l’accusa di cosmopolitismo apolide e cospirativo, foriero di separatezza e scarsa lealtà nazionale, sino all’estremo del tradimento, secondo un’insinuazione che nei Protocolli dei Savi di Sion e nell’affare Dreyfus avrebbe trovato le sue più clamorose testimonianze.

Per orientarsi nella genesi di questi pregiudizi occorre dotarsi di cronologie e mappe geografiche, che nella millenaria diaspora ebraica forgeranno la sua dislocazione nella stratificazione sociale dei diversi paesi d’insediamento. Dal Medioevo gli ebrei sono interdetti da terra e professioni liberali, ritagliandosi la specializzazione verso altre, fra cui il prestito di denaro, da cui una ristretta ma rinomata élite (leggi Rothshild) avrebbe ricavato posizioni di assoluto primato presso le cancellerie europee. Fra l’editto del 1792 e la metà dell’800, l’emancipazione si estende per l’Europa centro-occidentale, dischiudendo la fioritura di quell’enorme giacimento di talenti, lungamente incubato nella secolare consuetudine con lettura e interpretazione.

La presenza ebraica in Europa appare polarizzata fra una classe alta privilegiata ed una massa diseredata, ma dentro un’incoraggiante traiettoria di integrazione, che l’affare Dreyfus infrangerà traumaticamente. Dove la situazione permane penosa è nell’impero zarista, in cui risiedono relegate le più vaste comunità ebraiche del tempo, in una miseria periodicamente insanguinata da pogrom. Un’emarginazione esterna, corroborata all’interno dall’ortodossia conservatrice degli Ostjuden, intransigente sui precetti e poco incline all’integrazione coi gentili.

Dinanzi al naufragio sia dell’assimilazione territorialista che della separatezza identitaria, dopo 2000 anni di astensione, irrompe improvvisa una presa di coscienza politica. Fra 1896-1898 hanno luogo i congressi fondativi di due movimenti polari, destinati a segnare la storia del ‘900, non solo ebraica; quello sionista, verso lo stato d’Israele, e quello del Bund, fra i protagonisti della Rivoluzione russa.

In quel fatale frangente (1898), esce “Le proletariat meconnu”, del lituano Leonty Solowietschik, ora pubblicato come “Il proletariato negato. Studio sulla situazione sociale ed economica degli operai ebrei” (Biblio edizioni, 2020), con una ricca introduzione di Maria Grazia Meriggi. “Ma come, ci sono degli operai ebrei? Credevo che gli ebrei fossero tutti banchieri”, replica stupito il professore al giovano Leonty che gli chiede la tesi. Stereotipo allora molto diffuso, e derivato dalla innegabile sovra-rappresentazione degli ebrei fra le élites economiche e intellettuali fin-de-siecle. Un dato che, se da un lato susciterà orgogliose auto-rappresentazioni e anche simpatie filo-ebraiche fra i gentili, omette di precisare come una presenza non meno significativa vi sia nel proletariato, ingenerando quella distorsione prospettica, all’origine dell’antisemitismo di massa. Il libro è il tentativo di confutare il pregiudizio di un ebraismo senza proletariato, e viceversa, documentando come la loro correlazione non diverga sostanzialmente dal resto della società. Fino a prevalere, come in taluni contesti territoriali (East End londinese; Lower East Side di N.Y.) e professionali (sari, cappellai, orologiai), fino al quasi monopolio esercitato ad Amsterdam, nella lavorazione dei diamanti, dove costituiranno il primo grande sindacato olandese. Vi sono pagine di grande bellezza nel modo con cui l’A. ritrae la vita quotidiana di queste comunità pacifiche e laboriose, protese solo a ritagliarsi un posto al sole, pur nei sordidi quartieri dove vengono stipati.

Estenuati dal lavoro e dallo sfruttamento, ma pazienti, per quell’aria di libertà e speranza che da cittadini – già esuli in fuga – iniziano a respirare. Nelle “fabbriche del sudore” dove lavorano per durate impossibili, fanno dumping (ma mai come gli italiani, scrive l’A.) e crumiraggio. Ma non è loro la colpa, si appassiona l’A., affamati come sono, bensì del sistema vessatorio dell’intermediazione e del lavoro a domicilio che li schiaccia. Antropologicamente interessante il raffronto fra gli operai ebrei e quelli “cristiani” nel perseguire le loro strategie adattive e di riscatto; nell’organizzazione sindacale, nel tempo libero, nel valore riposto sull’educazione dei figli. Meno militanti degli inglesi, ma anche meno fatalisti riguardo a status e ascesa sociale. Nel loro giorno di riposo, i proletari ebrei non si ubriacano, ma stanno con la famiglia, leggono e non danno mai preoccupazioni alla polizia. E se è vero che a Londra gli ebrei latitano sindacalmente (ma negli anni ’30 le cose muteranno anche lì), lo stesso non può dirsi degli USA, dove diventano un nucleo militante fra i più organizzati e combattivi, donando con Gompers il fondatore del moderno movimento sindacale americano.

Della Russia, che allora ospita la più grande popolazione ebraica del mondo, l’A. evoca miseria e discriminazioni, ma anche l’emersione di individualità istruite e politicamente consapevoli, destinate a fornire un numero talmente esorbitante di quadri e militanti rivoluzionari, da alimentare quell’altro mito, già evocato, del bolscevismo giudaico. Colpisce l’assenza di capitoli dedicati alla Francia, all’Austria e alla Germania, dove in quegli anni prende corpo un poderoso movimento socialdemocratico e marxista, assillato dal rapporto fra nazionalità e classe, che renderà quei movimenti operai meno permeabili al veleno antisemita. In ciò attestando come, seppur non sufficiente, è sempre necessaria l’opera politica e pedagogica dell’organizzazione e del sindacato, nello scongiurare in seno alla classe il virus dello sciovinismo e della xenofobia. Alimentando la comprensione delle reali cause dello sfruttamento, e con essa, il perseguimento delle azioni necessarie per contrastarlo e sconfiggerlo.


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