Dalla pesca dei ranocchi ai campi di rugby - di Andrea Montagni

“Il ponte” di Carlo Cirri, Porto seguro editore, Firenze, pp. 349, euro 17,90

Il 21 gennaio 2021 in quel di Livorno sul marciapiede antistante il Teatro San Marco, Carlo Cirri, lì convenuto come me per commemorare come cittadino il centesimo anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, mi ha donato una copia autografa di un suo romanzo, “Il ponte”, dicendomi: “Formaggino, fammi sapere la tua opinione!”. Mentre rigiravo tra le mani il libro e leggevo sul frontespizio la dedica ho pensato: se ne vale pena, non gli fo sapere la mia opinione, la farò conoscere a tutti i lettori e le lettrici di “reds”…
Eccomi qua, dunque a poco più di due mesi di distanza a parlarvi di questo romanzo nella mia qualità di lettore/recensore senza alcuna pretesa letteraria, se non quella d’invogliare alla lettura.

Un breve cenno sull’autore. Carlo Cirri. L’ho conosciuto militante della FGCI, quando io ero di Lotta Continua. Il che vuol dire – anche per il carattere rude di Carlo – che eravamo come cane e gatto e non è un modo di dire, soprattutto nella seconda metà degli anni ’70.
Di lui dirò questo: laureato in Giurisprudenza, trovò un buon posto in banca. Insofferente all’ambiente e al tipo di lavoro, si licenziò. Ebbe poi la sorte di vincere un concorso in Regione Toscana e si è occupato di affari giuridici e istituzionali. Conosco una sola altra persona che si sia licenziata di banca, che era, come tutti sanno, una meta agognata ai più della mia generazione e soprattutto per i genitori. Andarsene era un atto di coraggio, significava rinunciare allora ad una certezza per navigare in mare aperto.

Ma non divaghiamo.
Come sempre faccio, prima ho letto il libro e solo dopo sono andato a legger le note editoriali che qui sono in ultima di copertina: non perché tema gli “spoiler”, un problema che si pone solo con i gialli (e questo un giallo non è), ma perché non mi voglio far condizionare; in questo caso, però, la presentazione racconta bene la trama di massima del libro. Scrivo le recensioni a distanza di tempo dalla lettura, cosicché mi pare di poter cogliere a distanza di tempo quello che del libro ti rimane per davvero, oltre l’impressione immediata che è quella che ti porta a proseguire nella lettura senza abbandonarla.

Il ponte sull’Arno che dà il titolo a romanzo, questo va detto, è un luogo fisico, luogo di eventi tragici, ma anche una metafora sui passaggi nella vita individuale e tra generazioni.

La saga della famiglia Moretti, seguita dall’inizio del secolo fino ai giorni nostri offre lo spunto al Cirri per raccontarci un pezzetto della storia della Firenze proletaria e antifascista, quella raccontata magistralmente anche da Vasco Pratolini (proprio quest’anno ricorre il centenario delle barricate d’Oltrarno e di Scandicci e dell’assassinio del sindacalista Spartaco Lavagnini) per farci rivivere l’evoluzione dell’intero paese fino al boom economico e oltre. I personaggi sono ben delineati, i sentimenti sono sempre forti, anche se raccontati con pudore. I sentimenti e i valori sono al centro della narrazione, i valori grandi e i sentimenti della vita quotidiana, fatta di gioie, di dolori, di scelte, di relazioni.

Nel racconto vediamo materializzarsi il processo di emancipazione del proletariato e dei ceti popolari urbani che, prima con l’industrializzazione e poi con la ripresa economica del dopoguerra, scalano la gerarchia sociale andando a formare quel ceto medio, oggi di nuovo impoverito, costituito di operai, impiegati, artigiani, commercianti che è stato - finché ha avuto peso nella vita politica e sociale del paese attraverso i suoi partiti e i suoi sindacati - la forza principale della Repubblica e che spiega tanto della politica in Toscana fino agli anni 90.

Molti lettori, tra i nonni, i genitori e i figli ormai quarantenni di quelle generazioni potranno rivedere se stessi, la loro vita, le loro aspirazioni. Qualcuno soltanto attraverso il ricordo delle parole di chi non c’è più e raccontava la miseria e le asprezze della vita dagli anni 20 agli anni 50. Ed anche l’entusiasmo, la fiducia degli anni del dopoguerra fino a quel momento massimo di solidarietà anche internazionale che affratellò i giovani in occasione dell’Alluvione del 1966. In quel fango sperimentava la solidarietà collettiva quella generazione che sarebbe stata protagonista di lì a poco del ‘68.

Godetevi anche la descrizione di una parte di Firenze che pochi turisti conoscono, nonostante il Giardino di Boboli, la Chiesa del Carmine con gli affreschi di Masaccio e il divertimentificio di piazza Santo spirito e dintorni. Una Firenze ancora viva e popolata con le case abitate, le botteghe artigiane e non quel deserto cittadino con i b&b, le paninerie, i ristoranti, spuntati come funghi ed ora, in pandemia, disvelata nella sua assenza di vite e di un tessuto urbano che non c’è più, travolti dalla speculazione.

Avviso. Non è un romanzo ambientato solo a Firenze e nei suoi quartieri, Con Carlo e i suoi protagonisti, uomini e donne, viaggerete in Europa per necessità o per virtù: andrete in Francia e in Irlanda seguendo il filo degli avvenimenti.

Un’ultima annotazione. Carlo Cirri introduce nel romanzo lo sport che credo abbia praticato anch’egli e che in Italia non va per la maggiore, mentre è popolarissimo quanto e più del calcio in Francia, Inghilterra e Irlanda e in tanti altri paesi: una nota di freschezza e credo innovativa nella nostra letteratura nazionale. Tranquilli, potrete leggere il romanzo anche senza conoscerne le regole.

Quella del rugby per Cirri è una cosa ricorrente. Nel suo romanzo di esordio, “Attraversando la notte” del 2019, mi dicono, il protagonista è un argentino, giocatore professionista di rugby esule in Italia. Ma quella è un’altra storia ed io devo ancora leggerlo.
Per farla breve, andate in libreria e acquistatelo anche perché altrimenti non saprete mai nulla dei ranocchi che danno il titolo a questa recensione!