Cessione o affitto di ramo d’azienda: i diritti non dovrebbero mai essere messi in discussione! - di Stefano Gugliotta

La cessione e/o l’affitto del ramo d’azienda - regolato dalla legge 428/90 che all’art.47 richiama l’art. 2112 del codice civile - si consolidano sempre più come un escamotage da parte del capitale per abbassare il costo del lavoro e, di conseguenza, attuare una politica di aggressione alla libera concorrenza.

Il metodo oramai consolidato è quello che vede l’azienda X cedere il ramo d’azienda all’azienda Y, la quale, in fase di informazione sindacale, deve fornire, oltre alla data prevista ed alle motivazioni, le conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori, nonché le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi.

Oramai è prassi consolidata che l’azienda subentrante, che ha liberamente scelto di avviare l’affitto o l’acquisto del ramo d’azienda, fatalmente solo in sede di informativa sindacale denuncia che l’organico del personale presente nel ramo d’azienda è in esubero, e pone come conditio sine qua non l’abbassamento del costo del lavoro mediante le deroghe al CCNL.

E’ vero ed incontrovertibile che il famigerato art. 4bis, che prevede l’accordo sindacale nel caso della possibilità di un mantenimento parziale dell’occupazione presente nel ramo d’azienda, è previsto solo nel caso che l’azienda cedente versi in crisi aziendale o amministrazione straordinaria o concordato preventivo o ristrutturazione del debito, ma è anche vero che le superiori condizioni possono anche essere create fittiziamente e sono difficilmente sindacabili nel merito.

La domanda sorge spontanea: perché un imprenditore, nell’acquistare un ramo d’azienda, si assume anche l’onere degli esuberi? La domanda sembra banale, ma banale non è. Sarebbe naturale dal punto di vista imprenditoriale che, se l’azienda Y deve acquisire il ramo dell’azienda X, pretenda che la stessa si assuma l’onere di smaltire eventuale personale in esubero. La risposta è quasi ovvia: l’acquirente si assume l’onere magari pagando meno il ramo d’azienda, liberando quindi il cedente di un costo oneroso, contando poi sul “ricatto occupazionale” che trova naturale soluzione in sede sindacale.

Puntualmente si apre quindi lo scenario dell’abbattimento del costo del lavoro per mantenere l’occupazione e le OO.SS., troppo spesso, accordano deroghe anche importanti al cessionario, che hanno effetti dirompenti nel campo delle regole delle concorrenza e del libero mercato (anche in barba alle regole dettate dall’Autorità Garante delle Concorrenza e del Mercato).

Nel caso della Grande Distribuzione Organizzata (GDO), l’esercizio delle regole della libera concorrenza si basa su due elementi essenziali: il prezzo minimo dei prodotti ed il costo del lavoro.

Il prezzo minimo dei prodotti è limitato dall’Autorità nel caso di vendite sottocosto, la cui concreta valutazione di liceità è delegata all’AGCM, fermo restando che la Corte eurounitaria ha censurato, a norma della direttiva 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali, il divieto generale di vendita sottocosto, quale illecito concorrenziale.

Il costo del lavoro, di contro, dovrebbe essere la base egualitaria su cui si basa la libera concorrenza, anche alla luce dei limiti esposti ed imposti anche dalla giurisprudenza della suprema Corte di Cassazione sulle vendite sottocosto (ordinanza 7 febbraio 2020 n. 2980), ma purtroppo, anzi troppo spesso, così non è.

Sotto il ricatto occupazionale, le cessionarie richiedono deroghe al CCNL che, nei fatti, oltre ad intaccare il reddito dei lavoratori mediante una decurtazione delle anzianità maturate e/o il mancato riconoscimento di parte (con casi in cui sono stati superati in blocco) dei permessi spettanti ai lavoratori, determina in più una plateale concorrenza sleale nei confronti delle aziende sane della GDO, che continuano a pagare secondo il CCNL i lavoratori.

Gli effetti che producono questi accordi in deroga sono dirompenti: le aziende “sane” che osservano il CCNL, e non praticano il sottocosto, si ritrovano sul mercato locale un diretto concorrente che può puntare su un minor costo del lavoro e di conseguenza praticare una politica dei prezzi che attirano più clientela a svantaggio del mercato e dei diretti concorrenti.

E’ vero, il sindacato ha il dovere di salvaguardare l’occupazione; ma ciò non può prescindere dal causare effetti a catena, per cui si rischia che l’imprenditore “sano” viene di fatto costretto, per mantenersi sul mercato a sua volta, ad inventarsi una crisi e magari procedere, mediante società di comodo, a cedere e/o affittare il ramo d’azienda ed abbassare a sua volta il costo del lavoro. In un gioco perverso in cui, alla fine, chi paga è sempre e solo il lavoratore.

Non sono rari gli accordi in deroga, dove nella cessione del ramo d’azienda vengono sacrificati i diritti dei lavoratori in termini normativi e salari, e magari poi si legge negli accordi che l’azienda cessionaria ottiene anche deroghe per procedere a nuove assunzioni nel medesimo ramo d’azienda dove prima si dichiaravano esuberi.

Quando il sindacato firma accordi in deroga, lo fa a ragione per salvaguardare l’occupazione; ma il problema è che, troppo spesso, la salvaguardia occupazionale rischia di diventare un “paravento” da utilizzare per giustificare questo tipo di accordi a ribasso, magari tralasciando gli approfondimenti del supposto esubero e/o crisi, limitandosi a trattare sul numero degli esuberi e sulle richieste di deroga al CCNL.

Non ci possiamo stupire se le grandi multinazionali della GDO - da Carrefour ad Auchan - hanno deciso di abbandonare il mercato italiano specialmente al Sud, ed oggi è di scottante attualità la cessione dei punti vendita di Coop.

Bene fa la Filcams ad investire nella formazione dei delegati e dei funzionari sindacali, nel saper leggere un bilancio, indagare sulla storia delle aziende magari con una attenta lettura delle visure camerali; occorre inoltre un monitoraggio a valle della formazione, per capire come venga valorizzata detta conoscenza e soprattutto il risultato che si è raggiunto nella stesura degli accordi, a difesa sia dell’occupazione che del monte salario dei lavoratori oggetto di cessione d’azienda.

Il messaggio di Peppino Di Vittorio è di scottante attualità. Se ieri agli operai diceva “Non dovete togliervi più il cappello di fronte a nessuno, di fronte al padrone, perché siete uguali agli altri”, oggi - che il cappello è in disuso - occorre dare un analogo segnale ai lavoratori: i diritti conquistati non debbono mai essere messi in discussione. Primariamente dal sindacato.