No al sindacato istituzionale, che vive solo di riconoscimenti triangolari - di Federico Antonelli

L’intervento di Federico Antonelli alla Assemblea nazionale di Lavoro Società CGIL del 16 settembre

Quando ho iniziato a strutturare il mio contributo alla nostra iniziativa odierna ho pensato a molte cose. La nostra agenda è oberata di tanti impegni: impegni che condizionano in maniera evidente anche il nostro prossimo congresso. La relazione di Giacinto e gli altri interventi li hanno già descritti e messi in evidenza: la guerra, come il mondo e il nostro paese sono usciti dalla pandemia, la situazione economica e la crisi energetica; la prossima scadenza elettorale e l’Italia che ritroveremo dal 26 settembre. In questo mare di questioni mi son detto: ma noi oggi ci ritroviamo nuovamente in presenza, ed è la seconda volta, come aggregazione, dopo il seminario che, come “Lavoro Società in Filcams” organizzammo a Perugia, lo scorso mese di febbraio. E’ un occasione fondamentale in cui raccontarci e confrontarci, ma partendo da noi: allora ho pensato di prendere in mano il documento con cui abbiamo formalizzato la costituzione della nostra aggregazione e l’ho riletto con attenzione. E lì ho trovato diversi spunti. Nel nostro documento scrivemmo: il dopo non sarà come e non dovrà essere come il prima: cambiare radicalmente approccio, cultura e il sistema economico e sociale non è un’opzione ma un’impellente necessità di sopravvivenza.

Avevamo tante ragioni allora per sostenere questa necessità e abbiamo altrettanta ragione oggi se affermiamo che questo cambiamento non è mai stato avviato. La situazione, se vogliamo, è perfino peggiorata, con una crisi economica in cui il costo dell’energia rappresenta la variabile più opprimente e in cui dobbiamo assistere al vergognoso spettacolo delle imprese che ancora non versano le tasse dovute per gli extraprofitti raccolti in questi mesi. L’egoismo delle grandi compagnie e l’incapacità, o mancanza di volontà, della politica di imporre scelte indispensabili sul piano della redistribuzione della ricchezza, attraverso la leva fiscale, sono l’immagine di un modello capitalista che non cambia e continua ad imporre la sua politica di sfruttamento del pianeta e delle persone. Lo slogan troppe volte ascoltato nel periodo della pandemia, “ci vuole più Stato”, oggi si tramuta in una proposta elettorale di flat tax che penalizza i lavoratori e premia i grandi redditi. Esattamente il contrario di giustizia economica e sociale di cui abbiamo sempre più bisogno.

In quel documento scrivemmo che “la pandemia ha evidenziato l’essenzialità oltre a tutto il sistema sanitario pubblico da potenziare e valorizzare, di molti lavoratori poveri e dequalificati (pulizie, mense, agricoltura, logistica, rider, badanti ecc.) che in termini di precarietà, orari di lavoro e retribuzioni costituiscono spesso il livello più basso delle condizioni salariali e di lavoro”.

La mia categoria è la Filcams e molti di questi lavoratori sono organizzati da noi. Ebbene, questi lavoratori continuano ad essere alla fine della catena del valore e i loro contratti sono oggetto di contrattazioni infinite, snervanti e che non possono garantire adeguati risultati economici. E, guardate, non è tema di bravura del singolo Segretario o della capacità di partecipazione dei lavoratori. Questi risultati sono frutto dell’idea che sta alla base delle politiche degli appalti: la distruzione di diritti e salari, la frammentazione della forza lavoro che ha tolto forza alle rivendicazioni delle lavoratrici e dei lavoratori, ha scaricato sugli stessi le incongruenze di un sistema che non fa nulla per garantire a queste lavoratrici e lavoratori un futuro diverso. Dobbiamo rimettere in discussione quel modello chiedendo che vengano reinternalizzati nel sistema pubblico (e privato) tutti quei servizi essenziali ed invisibili. Non si può continuare a far lavorare queste persone così!!

In quel documento affermiamo che “creare buon lavoro non basta; dinanzi a un costante aumento della disoccupazione, che colpisce in particolare le nuove generazioni e le donne, deve essere anche redistribuito attraverso la riduzione degli orari a parità di salario”. La pandemia ha anche sconvolto l’organizzazione del lavoro e nuovi modelli organizzativi, a cominciare dallo smart working, si impongono. E questi strumenti sono progresso agli occhi dei lavoratori, ma sono anche un grande pericolo, agli occhi di chi cerca di coniugare lavoro e diritti come noi sindacalisti. Lo smart working rischia di aumentare l’orario di lavoro, rischia di stravolgere il sistema di strumenti che conciliano esigenze personali e attività lavorativa, rischia di riportare la condizione professionale e sociale femminile indietro di 40 anni. Lo smart working sta rimettendo in discussione il diritto alla salute e la sua tutela con le normative che conosciamo bene (a partire dalla legge 104). Sono diverse le imprese che chiedono di gestire i permessi per la riduzione dell’orario di lavoro, allungando nei fatti l’orario medio annuo. Sono diverse le aziende che sostengono che grazie allo smart working istituti come la malattia nelle sue declinazioni contrattuali possono essere ridefinite. Sono molti, purtroppo, i lavoratori e le lavoratrici, che sull’altare del lavoro da casa sono disposti a cedere pezzi fondamentali di diritti. La riduzione dell’orario non è solo redistribuzione del lavoro nelle mutate condizioni tecnologiche attuali, è anche salvaguardia di diritti quali la maternità e la paternità, la legge 104, la malattia e la tutela della salute. E’ anche lo strumento con cui rilanciare la contrattazione sull’organizzazione del lavoro.

In quel documento scrivemmo che “un sindacato senza delegati è un sindacato istituzionale che vive di riconoscimenti triangolari. La CGIL della Carta dei diritti, del sindacato di strada, e della contrattazione inclusiva vive solo se è possibile poter fare i delegati con un minimo di tutela a fronte delle rappresaglie padronali in un quadro di disoccupazione e sottoccupazione”.

Per la nostra organizzazione la battaglia per la costituzione ed elezione delle RSU e delle RLS non può essere materia secondaria. E’ la base: solo con delegati eletti, maturi e responsabilizzati la storia del sindacato confederale potrà continuare. Perché la crisi della politica ci insegna che senza radicamento sociale profondo ogni organizzazione è destinata ad appassire. E la democrazia passa dalla forza dei rappresentati ancora prima che dalla potenza dei rappresentanti: perché senza una base forte, coinvolta, consapevole non esiste futuro. E’ questa idea si nutre anche dalla tutela del pluralismo nella nostra organizzazione, che resta la più bella (non solo grande, dico bella apposta, non mi sono confuso) organizzazione di massa del nostro paese proprio per la nostra capacità di coinvolgere e offrire strumenti e protagonismo ai nostri delegati. Ed è solo grazie a questa spinta democratica che la struttura burocratica, indispensabile per assicurare esperienza e conoscenza specifica all’attività sindacale, non appassisce in se stessa, nel delirio autoreferenziale che ha ucciso i grandi partiti italiani del dopoguerra.

In quel documento scrivemmo che “siamo convinti che, in un’organizzazione democratica, burocratica e di massa, occorra riconfermare una ridefinita sinistra sindacale, non fatta da guardiani della linea o da grilli parlanti. Ma parte e risorsa dell’organizzazione che, nella dimensione della maggioranza politica e di governo dell’organizzazione stessa, contribuisca con idee radicali e innovative, e soprattutto con pratiche coerenti, a innervare la CGIL del futuro e a sostenere e realizzare il Piano del Lavoro e la Carta dei Diritti, ossia la linea approvata dal congresso, le elaborazioni e le proposte contenute nel documento Dall’emergenza al nuovo modello di sviluppo”.

La sinistra sindacale ha una grande storia, noi abbiamo una grande storia. E la nostra storia è fatta di amore per la nostra organizzazione, di passione politica e sindacale e di rispetto della democrazia interna e nel rapporto con i delegati. L’ho detto prima: i nostri delegati sono la nostra forza. Noi crediamo che offrire a loro diversi ambiti di discussione sia una ricchezza ed un dovere e crediamo che essere al centro della CGIL significa che il contributo che ognuno di noi offre alla vita dell’organizzazione debba essere riconosciuto sulla base della qualità, sulla base della lealtà e della trasparenza delle posizioni, sulla base della capacità di attrarre ogni possibile articolazione di pensiero, in linea con i nostri valori, purché sia in linea con i nostri valori a cominciare dall’antifascismo. La nostra storia è lunga e articolata e affonda le proprie radici in un’epoca in cui era facile distinguerci sui grandi temi e continua oggi in cui essere parte della maggioranza che sostiene il segretario generale Maurizio Landini è una scelta convinta e ragionata. Proprio questa storia merita attenzione e impegno, continuità e lavoro. E dico questo rivolgendomi soprattutto ai giovani che sono presenti in sala che potranno dare molto a noi come aggregazione e all’organizzazione tutta ridefinendo obiettivi, linguaggio e meccanismi di analisi di un mondo che muta continuamente, ma che riproduce meccaniche di sfruttamento e di ingiustizia assoluti.

Voglio chiudere riprendendo il tema che più di ogni altro ci coinvolge. Giacinto ha già parlato della guerra, e delle conseguenze economiche su noi, classe lavoratrice. Io voglio aggiungere un’idea che credo dobbiamo sostenere con forza, anche contro il sentire comune che sembra averla voluta abbandonare: l’idea della pace. Per fare questo ho ripreso un pezzo del manifesto pacifista di Russell – Einstein del 1955: “Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?”.

Ebbene io credo che se oggi una guerra sanguinosa, dolorosa, mette in crisi ancor di più la nostra vita e le nostre abitudini di vita – ricordiamo, stimolate da un sistema che ci impone il suo modello di sviluppo – è perché quasi nessun uomo politico, nessun governo e troppi pochi uomini di cultura e di informazione hanno agito per costruire la pace e non sostenere la guerra. Non è vero che per costruire la pace bisogna prepararsi alla guerra: prepararsi alla guerra provoca solo la guerra, morte, distruzione e la scomparsa di intere generazioni. La pace non è una scelta ingenua, ma una necessità su cui tutti dobbiamo impegnarci.

 


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