Crisi del servizio sanitario pubblico e contraddizioni dell’azione sindacale - di Matteo Baffa

Dalla finestra del mio posto di lavoro, il Centro Unico Prenotazioni dell’azienda sanitaria veneziana, si scorge un panorama desolante e allarmante, comune purtroppo a tutta la penisola, seppure con sfumature più o meno critiche.

L’eccellenza sanitaria veneta è sempre più una ridicola chimera, mentre la realtà dei fatti ci racconta un graduale definanziamento, un incremento esponenziale delle liste d’attesa (che diventano regola e non eccezione), un allungamento dei loro tempi di gestione, la crescente fuga di personale medico verso la libera professione e, conseguentemente, un progressivo processo di elitarizzazione delle cure a beneficio delle strutture private, convenzionate e non.

Più in generale, l’intero servizio sanitario nazionale (SSN), se così si può ancora chiamare, è ad un punto di non ritorno e la sua pretestuosa universalità è a rischio oggi più che mai, basti pensare agli effetti che la riforma sull’autonomia differenziata potrebbe produrre.

Il costante declino a cui stiamo assistendo non ha origini recenti; la pandemia non è che un fragile alibi, sebbene il suo impatto sia stato (ed è ancora) evidente, e le cause sono molteplici e tutt’altro che casuali. Impossibile approfondirle, o anche solo elencarle, in questo mio contributo.

Il tema della difesa e del potenziamento del servizio sanitario pubblico occupa un posto centrale nel progetto di nuovo Stato sociale del documento “Il Lavoro crea il Futuro”, e proprio per questo credo che come sindacato sia nostro dovere innanzitutto interrogarci su eventuali passi falsi o limiti della nostra azione politica e contrattuale, che possano inconsapevolmente aver contribuito ad aggravare la profonda crisi in cui versa il diritto costituzionale alla salute in Italia.

Alcuni approcci e prassi che abbiamo accettato in questi anni hanno avuto innegabili conseguenze sull’accentuarsi delle “disuguaglianze sanitarie”: siamo in grado di riconoscerle e soprattutto rimetterci in discussione?

In primo luogo facciamo una gran fatica a proporre un’alternativa al capillare mondo degli appalti del sistema ospedaliero: la tendenza sembra essere quella di riconoscere la legittimità delle esternalizzazioni e degli appalti come strumento, sebbene cerchiamo quotidianamente di correggerne le storture. Accettiamo cioè le regole del gioco e all’interno di quei confini cerchiamo di migliorare le condizione delle persone che rappresentiamo, quando dovremmo prima di tutto mettere completamente in discussione la tendenza dell’affidamento esterno, denunciandone non solo le discriminazioni salariali e contrattuali che gravano su lavoratrici e lavoratori, ma anche l’antieconomicità del processo stesso, che porta ad una pessima allocazione delle risorse pubbliche a vantaggio esclusivo di interessi privati e ad una contemporanea intermittenza dell’efficienza e della qualità del servizio reso.

La contrattazione inclusiva e quella d’anticipo, non ancora diffusamente realizzate, devono mettere insieme gli interessi di lavoratrici e lavoratori a quelli della più generale collettività, promuovendo l’internalizzazione a vantaggio di tutti, contribuendo a combattere gli sprechi, ad efficientare prestazioni e servizi e ad allontanare gli appetiti privati dalla sanità pubblica. Non possiamo più permetterci di considerare le esternalizzazioni nella sanità (dal pulimento ai Cup, dalla vigilanza fino al personale medico-infermieristico) come un destino ineluttabile e irreversibile.

In secondo luogo, è necessario e urgente un confronto approfondito sugli effetti collaterali del cosiddetto “secondo pilastro” del servizio sanitario, ovvero la sanità integrativa, presenza costante nei rinnovi dei contratti nazionali che ci vedono coinvolti.

Il report del 2019 dell’Osservatorio GIMBE è inclemente e fornisce un quadro preoccupante, in cui la sanità integrativa rischia di affondare il SSN più che supportarlo, come invece abbiamo sempre creduto; sostituirlo più che integrarlo.

Innanzitutto, si preferisce “destinare risorse pubbliche alle agevolazioni fiscali dei fondi sanitari, invece che aumentare le risorse per la sanità pubblica: infatti, l’entità del beneficio fiscale pro-capite previsto per i fondi sanitari sfiora il doppio della spesa sanitaria pubblica pro-capite nel 2016”, ed è legittimo supporre che la tendenza si sia aggravata negli anni a seguire. Inoltre, le citate agevolazioni fiscali sono una spesa sostenuta da tutti i contribuenti, scaricata quindi sulla collettività, ma che in realtà rende benefici solo a una parte ristretta di essa, accentuando le disuguaglianze tra iscritti e non iscritti ai fondi, ma pure tra gli iscritti stessi, e minando l’universalità di cure e prevenzione.

Se poi ci soffermiamo sui presunti benefici del fruitore del fondo (il lavoratore iscritto), ovvero il rimborso di alcune spese, dovremmo anche considerare in prospettiva la correlata rinuncia ad una quota di pensione e di Tfr: ecco che i reali beneficiari del secondo pilastro sembrano essere più le imprese - che risparmiano sul costo del lavoro e concedono “welfare” al posto di salario - piuttosto che i lavoratori.

Occorre quindi discutere apertamente dell’argomento, con l’onestà di chi può aver commesso un errore con le più nobili intenzioni, cioè quelle di sopperire all’inadeguatezza del SSN con un’integrazione che potesse aiutare il lavoro dipendente nell’accesso alle cure.

Uno strumento che voleva essere di supporto è però oggi una delle concause della deriva dell’assistenza sanitaria pubblica; non possiamo più negarlo ed è assolutamente necessaria una regia confederale che armonizzi le piattaforme delle categorie, estromettendo la sanità integrativa dalla contrattazione, concentrando gli sforzi sulla crisi salariale e sul diritto collettivo ed egualitario alla salute.

In questo contesto, pensare di aumentare le retribuzioni della classe lavoratrice attraverso il taglio del cuneo fiscale (piuttosto che con l’introduzione di un adeguato salario minimo) può essere una soluzione poco lungimirante e un’arma a doppio taglio.