L’inflazione e i falsi miti del monetarismo - di Francesco Barbetta

Gli ultimi anni sono stati contraddistinti da un alto livello di inflazione che fino al periodo storico precedente la pandemia il pensiero economico dominante considerava un problema superato per le economie a capitalismo avanzato. I fatti si sono incaricati di smentire questa tesi e per spiegare questo fenomeno economico è tornato di moda il monetarismo. Questa è la tesi di fondo del libro di Francesco Saraceno Oltre le banche centrali. Inflazione, disuguaglianza e politiche economiche. Il libro offre molti spunti di riflessione per i sindacalisti. Il monetarismo tende a spiegare l’inflazione esclusivamente come un fenomeno monetario, inclusa quella successiva al 2021. Dobbiamo però ricordare che le cause sono molteplici, ad iniziare dalla ripresa economica successiva alla pandemia che ha causato tensioni sul mercato dei beni energetici e alimentari. Quando le tensioni sulle catene del valore sono state superate, assieme al rientro dei prezzi dei beni energetici a livelli precedenti la pandemia, abbiamo assistito ad un calo piuttosto lento dell’inflazione di fondo.

Questa constatazione ha generato due schieramenti opposti nelle modalità di gestione dell’inflazione. Da un lato troviamo i sostenitori del suo contrasto attraverso politiche di bilancio, regolamentazioni del mercato e politiche industriali mentre dall’altro lato ci sono i sostenitori delle politiche monetarie restrittive, dell’aumento dei tassi d’interesse e della contrazione della moneta. Al momento stanno vincendo quest’ultimi, con il rischio di far crollare la domanda aggregata e far aumentare la disoccupazione. La domanda che dobbiamo porci, alla luce di queste differenze ideologiche, è: a quale costo è giusto sostenere la lotta all’inflazione?

La spiegazione dominante dell’inflazione sostiene che sia determinata dalla domanda e dall’offerta globale. Di conseguenza è letta come un eccesso globale dei mezzi di pagamento rispetto all’offerta di beni. Ma, sostiene Saraceno, se noi guardassimo all’inflazione per ciò che effettivamente è, ovvero un aumento dei prezzi, dovremmo indagare la loro determinazione che sono molteplici. Infatti i prezzi sono legati ad una eterogeneità di cause esattamente come l’inflazione che infatti dipende da cambiamenti tecnologici, ripresa post-pandemia, tensione geopolitiche oppure dai vincoli della capacità produttiva che impediscono di adattare la produzione all’aumento della domanda. Questo genera problemi dal lato dell’offerta che si affrontano allineando domanda e offerta velocemente nei singoli settori ed è possibile fare ciò attraverso politiche industriali volte a tamponare le penurie temporanee e aiutare i settori colpiti da shock attraverso incentivi fiscali, regolamentazione del mercato e politiche attive del lavoro.

Un altro mito sull’inflazione che è importante sfatare è legato alle aspettative. I monetaristi affermano che non è importante la natura dello shock, l’importante è evitare che l’inflazione venga incorporata nelle aspettative degli agenti economici, tra cui ovviamente rientra il sindacato. La rincorsa tra aumenti dei salari dei lavoratori e prezzi praticati dalle imprese rischia di alimentare l’inflazione e pertanto la banca centrale deve intervenire per controllare la situazione. Saraceno ci viene in aiuto affermando che non è razionale tradurre, senza utilizzare tutte le informazioni a disposizione per comprendere la natura del fenomeno inflattivo, l’inflazione attuale in inflazione futura. Le imprese che aumentano i prezzi perché si aspettano una maggiore inflazione la stanno generando e in questo modo producono un inseguimento senza fine molto pericoloso per l’economia.

Questa resta però la principale motivazione adottata per bloccare sul nascere ogni rivendicazione salariale per evitare di scaricare sul lavoro i costi dell’inflazione. Si tratta del famoso pericolo della spirale salari-prezzi che nei fatti non esiste attualmente. Saraceno sostiene che gli aumenti dei salari sono stati inferiori, in Occidente, all’aumento dei prezzi e addirittura i salari reali sono diminuiti. Solamente negli USA i salari nominali hanno tenuto il passo dell’inflazione. “Il più recente Employment Outlook dell’Ocse, pubblicato a giugno 2023, oltre a confermare che l’inflazione erode il potere d’acquisto delle famiglie povere in maniera più importante, documenta come la perdita di terreno dei salari reali sia continuata anche nei primi mesi del 2023. Nella maggioranza dei Paesi dell’Ocse, i salari reali sono oggi inferiori ai livelli di fine 2019, e virtualmente in tutti i Paesi sono inferiori alla fine del 2021. L’Italia in particolare è tra gli ultimi, con una perdita del 7,3% dal 2019 (e del 7,5% da fine 2021)” .

Ad essere aumentati, invece, sono i profitti delle imprese. Saraceno si inserisce in questo modo nel ricco dibattito sulla greedflation e, citando dati del Wall Street Journal, sostiene che negli USA i profitti spiegano il 34% dell’inflazione tra il 2020 e il 2022 mentre era appena l’11% nel periodo compreso tra il 1970 e il 1979. Una dinamica simile è presente anche in Europa. Questi dati ci portano ad una conclusione. Il conflitto distributivo determina chi pagherà i costi dell’inflazione. Al momento il costo maggiore lo stanno pagando i salariati.


1 Francesco Saraceno, Oltre le banche centrali. Inflazione, disuguaglianza e politiche economiche, LUISS University Press, Roma 2023. Tutte le citazioni legate al libro sono prese da un ebook e pertanto non sono disponibili le pagine.