1992/1993. L’amara lezione di un biennio - di Pericle Frosetti

Dopo il pessimo accordo del luglio 1992 (il “Protocollo tra governo e parti sociali – politica dei redditi, lotta all’inflazione e costo del lavoro”) siglato da CGIL CISL e UIL con le tutte le associazioni del padronato pubblico e privato - e con il Governo (presidente del Consiglio era Giuliano Amato) - con il quale si sanciva la fine della scala mobile, si arrivò a luglio del 1993.

Nel 1993, con il paese al collasso economico-finanziario, CGIL CISL e UIL siglarono un nuovo accordo con il Governo Ciampi: un’intesa epocale sulla politica dei redditi, in base alla quale i salari e le tariffe sarebbero rimasti invariati, affidando ai CCNL il compito di riallinearli con l’eventuale inflazione e al Governo il compito di tenere sotto controllo prezzi e tariffe. Le imprese avrebbero dovuto tenere i prezzi bassi. Gli eventuali incrementi salariali sarebbero stati legati alla produttività ed oggetto della contrattazione di secondo livello.

Si decise, di fatto, l’“invarianza” del valore reale dei salari contrattuali collettivi nazionali e venne individuato il secondo livello di contrattazione (aziendale e/o territoriale) come unico luogo dove determinarne un incremento, legato alla produttività.

Tre volte l’anno ci sarebbero stati incontri per far sì che tutto funzionasse a menadito. Ma il patto fu applicato solo ai salari che rimasero invariati sì, ma solo sul valore nominale, cominciando a calare sempre più nel valore reale. E continua ad essere “applicato” con qualche piccolo aggiustamento per accordi successivi (avete presente l’IPCA?) ancora oggi. Male ovviamente, se mai fosse stato possibile applicarlo diversamente.

Per prima cosa saltò l’invarianza del valore reale delle retribuzioni, che si sono progressivamente disallineate rispetto all’inflazione, che i governi tecnici o di destra o di centrosinistra non hanno mai tenuto sotto controllo, mentre la produttività di sistema e aziendale è aumentata secondo gli andamenti dell’economia nazionale e internazionale, ma non la contrattazione di secondo livello, che era ed è rimasta patrimonio di una parte infinitesimale delle aziende

Ad oggi – dati del 2022 – la contrattazione di secondo livello coinvolge soltanto il 22% delle imprese e sono 3,7 milioni i lavoratori interessati dalla contrattazione collettiva di 2° livello (aziendale o territoriale), che rappresentano il 34,1% del totale dei dipendenti. Di contro, milioni di lavoratori hanno salari inferiori alle soglie di povertà, poiché i CCNL hanno complessivamente abbassato il valore reale delle retribuzioni. Di contro, ancora, prezzi e tariffe hanno corso e corrono tuttora senza limite alcuno da trent’anni!

Ad oggi, ci tocca pure di subire l’umiliazione di vedere la Magistratura registrare la nostra impossibilità di contrattare nazionalmente salari, in settori nei quali il sindacato è presente da sempre al prezzo di lotte durissime (pensiamo al settore dei multiservizi), che rispondano al dettato costituzionale, determinandoli così con sentenza giudiciale...
Dopo l’accordo del 1992, nelle piazze furono fischi e dadi da officina, scudi di plexigras a proteggere i capi del sindacato per un accordo che era “provvisorio”. Un terremoto che sconquassò la CGIL, provocando le dimissioni del Segretario generale Bruno Trentin, dimissioni poi rientrate con l’impegno a porre rimedio all’accordo del 1992 (che sanciva la fine della scala mobile). Il “rimedio” fu l’accordo del 1993, che Trentin e il gruppo dirigente della CGIL vollero fortemente, con la sola eccezione della minoranza congressuale (il Congresso era stato nel 1991).

Nel 1993 tanti lavoratori si fidarono poco. In milioni - allora gli accordi si votavano con una larga partecipazione - votarono contro, anche contro il parere dei loro gruppi dirigenti di categoria, allora molto ascoltati e seguiti.

Nel 1992/93 la CGIL fu salvata da contestazioni violente e da possibil fuoruscite in massa, dall’avere una forte dinamica interna - quella tra maggioranza ed Essere sindacato - che riuscì ad incanalare il dissenso dentro le dinamiche dell’organizzazione, dando spazio da allora alle ragioni di chi era contrario. Un elemento fondamentale di forza dell’organizzazione, la democrazia e il pluralismo interni, anche in quella difficilissima temperie che divideva anche duramente i lavoratori attivi dai pensionati, i dipendenti pubblici da quelli privati.

Di fronte ad una crisi gravissima che aveva motivato gli accordi stessi, fu la fiducia che la maggioranza degli italiani, soprattutto nelle classi subalterne e nel ceto medio, nutriva nell’Europa e nella sua prospettiva unitaria, a far digerire il rospo alla classe lavoratrice.

Il trattato di Maastricht c’era già, ma veniva letto dai lavoratori, dai pensionati, dai giovani con le lenti del Piano Delors ed era diffusa la convinzione che l’Europa sarebbe stata uno scudo e una risorsa per le economie di tutti i paesi, Italia compresa...

Due anni burrascosi nel corso dei quali venne decisa – nonostante le forti opposizioni e oltre ogni pessimistica previsione – l’apertura dell’Italia al liberismo economico. Con l’avvio dello smantellamento, graduale ma continuo, dello stato sociale così come si era configurato negli anni della ricostruzione postbellica, dal boom economico alle riforme aperte dalle nazionalizzazioni della produzione e distribuzione dell’energia elettrica, alla riforma della scuola, delle pensioni e dalla istituzione del servizio sanitario nazionale, che traducevano in realtà il dettato della Costituzione antifascista e democratica.

L’amaro bilancio, trenta anni dopo e con un sindacato che ha ritrovato progressivamente combattività e determinazione, è un sindacato che resta forte sul piano organizzativo, ma diviso e debole sul piano politico fino a rischiare - con la destra al governo - l’irrilevanza quando si decidono le politiche ed economiche e sociali del Paese.

Un sindacato che torna a contare esclusivamente sulla determinazione degli iscritti a fare della lotta di classe, non solo economica, lo strumento principe dell’azione sociale.


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