Una manovra che non dà speranze - di Riccardo Chiari

Di fronte alle guerre che infestano il pianeta come le antiche pestilenze, e che portano con sé i consueti effetti collaterali sotto forma di aumenti – speculativi – delle materie prime che innescano fenomeni inflattivi a cascata, il governo Meloni mette la testa sotto terra come fanno gli struzzi, e si appresta ad una manovra economica quanto mai timida, che non affronta i macrotemi dell’impoverimento generalizzato delle famiglie, del lavoro svilito e sempre più povero, dei servizi costantemente a rischio implosione, a partire dalla sanità e dai servizi sociali. Una manovra di classe, che offre una mancia una tantum attraverso il cuneo fiscale che riduce i costi alle imprese e offre modestissimi aumenti dei salari nominali, e che continua a far cassa con le pensioni.

In uno scenario del genere, non stupisce il giudizio tranchant della solitamente moderata ex segretaria generale della Cisl e oggi senatrice dem Annamaria Furlan: “Ogni giorno è più chiaro che la manovra fa cassa sugli attuali pensionati e su quelli futuri. Il quadro che emerge è drammatico: si allunga l’età pensionabile, i pensionati sono sempre più poveri, e si registra un accanimento speciale per le lavoratrici ed i lavoratori pubblici, i giovani disoccupati e i precari. Con questa programmazione economica ci attende un futuro a tinte scure, in manovra infatti non c’è nulla sulla crescita, sugli investimenti green e digitali delle imprese, zero sulla scuola e sul rilancio del Mezzogiorno. Soprattutto non c’è una pensione di garanzia per i giovani. Invece quello che troviamo sono i tagli: tagli alle indicizzazioni delle pensioni, penalizzazioni economiche per quota 103, otto miliardi di tagli alle future pensioni dei lavoratori pubblici, un ulteriore peggioramento di opzione donna. E ancora tagli ai comuni, alla sanità, ai servizi sociali”.
Sono contraddizioni pesanti, che stanno facendo vacillare l’abituale apertura di credito del sindacato bianco al governo Meloni, e che al tempo stesso confermano le buone ragioni di Cgil e Uil alla mobilitazione d’autunno.

A peggiorare la situazione, la mancata introduzione di controlli sui prezzi per evitare la diffusione dell’inflazione al resto dell’economia ha fatto sì che in questo 2023 in Italia si stia registrando una inflazione al 6,1%, trainata soprattutto dall’aumento dei prezzi introdotto dalle imprese per proteggere i profitti. Chi invece è intervenuto, come Francia e Spagna che hanno posto limiti ai prezzi dell’energia, ha visto scendere l’inflazione rispettivamente al 5,6 e al 3,5%, così come registra il Fondo monetario. Il governo Meloni si aggrappa alle stime di Bankitalia, che prevede la discesa dell’inflazione al 2,4% nel 2024 e all’1,9% nel 2025, addirittura più in fretta della media europea.

Ci sono invece i soldi per le armi. Nel decennio 2013-23 l’aumento in termini reali della spesa militare, e i dati sono quelli della Nato, è stato in Italia del 26%, e quello dell’acquisto di armamenti è stato del 132%, quando il Pil italiano aumentava nel complesso di appena l’8%, confermando il circolo vizioso tra guerra ed economia.


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