Guerra ed economia - di Emiliano Brancaccio

Un ragionamento, un approfondimento: ecco questo è il contributo che mi è stato chiesto e io sono onorato di essere qui da voi e con voi per cercare di elaborare un approfondimento su alcuni dei temi che sono stati toccati da chi mi ha preceduto.
Sentivo a questo riguardo una riflessione che mi sento di condividere: si è parlato della critica dell’economia politica e dell’analisi di classe, della lotta di classe. È stato detto che questi debbono essere degli strumenti teorici per l’azione sindacale per la prospettiva politica e io mi sento di condividere questa tesi, nel senso che la cosiddetta critica dell’economia politica è il punto di vista di classe.
Questi sono strumenti modernissimi di analisi e di lotta e quindi provo a utilizzarli per esaminare un tema che, ahinoi, si trova - diciamo - come una sorta di cappa di piombo sulle nostre riflessioni e sul nostro agire, che è il tema della guerra.
Mi è stato chiesto un approfondimento sui rapporti tra guerra ed economia e credo che mi sia stato chiesto giustamente, perché potete ben capire che la guerra, come si usava dire, è fenomeno politico forse più di ogni altro; e quindi è fenomeno pervasivo più di ogni altro.

LA TENDENZA ALLA GUERRA

La guerra determina i processi politici e condiziona anche le lotte sociali, la lotta sindacale in modo particolare. La storia ci racconta che gli episodi bellici sono stati decisivi per il successo o il fallimento delle iniziative sindacali e politiche di lotta sociale: insomma, uno spartiacque. Proviamo allora a esaminare la questione della guerra e proviamo a farlo partendo dalla conta dei morti, perché purtroppo ci tocca fare questo al giorno d’oggi.
Il grafico dell’andamento del numero delle vittime, dall’inizio del secolo passato fino ad oggi, descrive una linea di tendenza crescente, una linea di tendenza media, chiaramente crescente, e questa è una novità storica di questo secolo rispetto alla seconda meta del 900.
È una novità storica che tra l’altro tende a rafforzarsi man mano che passano gli anni: lo prova il fatto che, negli ultimi due anni, abbiamo registrato una ulteriore impennata dei caduti sia in termini di vittime civili che di vittime militari, scaturite dai conflitti militari che sempre più imperversano nel mondo.
Stime estremamente prudenti ci dicono che nell’ultimo biennio abbiamo registrato 200.000 morti nel conflitto tra Russia e Ucraina; altri 30.000 morti (dati aggiornati a fine febbraio, ndr) a seguito del massacro di palestinesi ad opera di Israele dopo le violenze di Hamas del 7 ottobre. Ci sono poi altre migliaia di vittime sparse per il mondo negli oltre 30 conflitti che tuttora si registrano sul pianeta: dal Myanmar all’Afghanistan, dalla Siria all’Etiopia e al Congo.
Ebbene, quando ci si trova di fronte a questi movimenti forniti dai dati, gli studiosi parlano di tendenza strong. Purtroppo siamo alle prese con una tendenza storica verso la guerra, una tendenza storica verso il conflitto militare: questo è un tema chiaramente decisivo, perché voi sapete che la Cgil, e in generale diciamo i sindacati – chiamiamoli pure conflittuali – sulla questione della pace o della guerra si giocano una parte importante del consenso di massa della organizzazione, della partecipazione di massa alle vertenze e alle iniziative sindacali e politiche.
La guerra è un discrimine cruciale e la posizione della Cgil è una posizione di pace: insomma, viene sfidata da una narrazione prevalente intorno alla guerra che qui in Italia, come del resto nella stragrande maggioranza dei paesi, è una narrazione dominata da quelli che possiamo tranquillamente definire “guerrafondai”.

UNA NARRAZIONE BELLICISTA E FUORVIANTE

La linea prevalente sui media, sulla stampa è una linea guerrafondaia: gli apologeti della guerra che vanno per la maggiore, i commentatori di grido, che insistono sul fatto che la guerra è una necessità storica, quando appunto chiediamo loro le motivazioni, quando gli si chiede: “scusami ma tu come ti spieghi questa necessità storica verso la guerra? come ti spieghi questa tendenza verso la guerra?”? Ebbene, i grandi commentatori, i grandi opinionisti, vi propongono delle spiegazioni della tendenza verso la guerra con motivazioni di ordine etico, etnico, religioso, al limite psichiatrico, o eventualmente attinente alle mere questioni territoriali.
Sono questi i cinque argomenti (etnico, etnico, religioso, psichiatrico e territoriale) che grosso modo racchiudono tutte le spiegazioni che vengono fornite della guerra nella discussione prevalente. Queste narrazioni sono così pervasive che è difficile fronteggiarle: per esempio la tesi del pazzo al potere, il pazzo che sta devastando il mondo, è una tesi che è andata e va tuttora per la maggiore. Secondo tale tesi saremmo in mano sostanzialmente a un manipolo di pazzi che scatenano le guerre e dobbiamo quindi rispondere a questa follia.
Oppure si passa alle questioni attinenti alla difesa della libertà, della democrazia; oppure ancora si discute della necessità di difendere un confine. Questi sono grosso modo gli argomenti di cui si tratta e bisogna ammettere che dinanzi a questa narrazione prevalente i cosiddetti costruttori di pace, i cosiddetti pacifisti, si trovano in difficoltà, perché è difficile contrastare questa narrazione prevalente.
Vi sarà capitato di discutere con una persona che, magari in buona fede, sia convinta che la guerra sia una necessità per alte ragioni di principio e faticate magari a portare il confronto su una valutazione più vicina al discorso pacifista. Si fatica molto, si fatica enormemente oggi e questa, se ci pensate, tale difficoltà incontrata dal mondo pacifista è una novità.
Perché se pensiamo anche all’ultimo grande movimento pacifista mondiale, quello del 2002-2003, allora gli argomenti contro la guerra erano forti ed erano efficaci. C’era una sorta di egemonia pacifista nel discorso politico prevalente. Un’egemonia pacifista che oggi è difficile da individuare: oggi sembrerebbe sussistere un’egemonia guerrafondaia anche tra persone culturalmente, socialmente e civilmente vicine ai temi dell’emancipazione del progresso sociale e civile.

LE GUERRE SONO SEMPRE LEGATE ALL’ECONOMIA

L’insidia ideologica della guerra si è fatta largo anche tra i gruppi sociali che si dovrebbero o si vorrebbero definire illuminati. Nel nostro piccolo, assieme a un gruppo di studiosi, abbiamo tentato qualche mese fa, e stiamo tuttora cercando, di portare strumenti di analisi e di lotta politica, strumenti in grado di rompere questa barriera ideologica di stampo prettamente guerrafondaio. Assieme al grande economista e biografo di Keynes Robert Skidelsky, ho scritto un documento che abbiamo intitolato “Le condizioni economiche per la pace” e che è stato poi sottoscritto da un numero consistente di esponenti della comunità accademica mondiale. Siamo riusciti a pubblicarlo sul Financial Times, su Le Monde e su Il Sole 24 ore.
La tesi che portiamo avanti in questo documento è che le narrazioni della guerra prevalenti nel discorso politico, le narrazioni di ordine etico, di ordine morale e di difesa della libertà, di tutela contro l’invasore ecc., sono tutte irrazionali.
In altre parole, il discorso politico prevalente sulla guerra è un discorso di falsa coscienza – nel senso che le attribuiva Marx – cioè è un discorso ideologico perché espunge completamente la questione economica dall’argomentazione. Sembrerebbe in sostanza che la guerra non abbia nulla a che fare con gli affari, sembrerebbe che la guerra non abbia nulla a che fare con il movimento di denaro: questa è una forma di ottundimento politico delle masse che György Lukács definì irrazionalismo. Secondo Lukács, che è stato un grande filosofo del ‘900, questa forma di mistificazione ideologica, l’irrazionalismo, fu una delle ragioni che condussero alla prima guerra mondiale, poi al nazismo e infine alla seconda guerra mondiale. Allontanare dal discorso pubblico la questione economica significa fondamentalmente rimbecillire il popolo.
Qualcuno potrebbe obiettare che ci sono delle guerre che non hanno granché a che fare con le questioni economiche: per esempio è d’uso sostenere che il conflitto israelo-palestinese non abbia a che fare con questioni economiche. Quello che con tanti colleghi e colleghe studiosi, storici, economisti, sociologi e così via, cerchiamo di fare è proprio di dimostrare che anche i conflitti apparentemente più lontani dalla questione bruta degli sporchi affari sono in realtà fortemente condizionati da moventi di ordine economico. Basti notare che il massacro di palestinesi che sta avvenendo in questi mesi e in queste settimane e le violenze che Hamas ha perpetrato in territorio israeliano il 7 ottobre, cadono in una fase storica decisiva che ha a che fare con i cosiddetti accordi di Abramo e con il tentativo americano –ovviamente supportato dagli alleati dell’America, in particolare da Israele – di costruire il cosiddetto “corridoio Europa – Medio Oriente – India”, il corridoio IMEC, che dovrebbe costituire il grande antagonista della cosiddetta Nuova Via della Seta cinese.
Ebbene, la condizione necessaria affinché gli accordi di Abramo e il corridoio IMEC che dall’Europa e Medio Oriente giunge fino in Cina (e in un certo senso spiazza la Via della Seta cinese) abbia successo è necessario stabilizzare i rapporti tra Israele e i grandi paesi arabi, in particolare i paesi produttori di petrolio.
Questo era un grande proposito degli accordi di Abramo portato avanti da Donald Trump e su cui ha anche insistito Joe Biden: non c’è differenza tra repubblicani e democratici a questo riguardo.
Questo proposito di stabilizzare i rapporti tra Israele e i grandi paesi arabi era a un passo dall’essere compiuto; prima del 7 ottobre ci trovavamo di fronte ad una situazione in cui si stava fondamentalmente per sancire un accordo storico tra Israele e Arabia Saudita, oltre a vari altri paesi arabi produttori di petrolio, che avrebbe stabilizzato la Regione e avrebbe consentito il movimento dei commerci e della finanza lungo quella linea; una linea dichiaratamente antagonistica a quella cinese.
Non è un caso che proprio alla vigilia di quegli accordi sia esploso nuovamente il conflitto mediorientale, che siano nuovamente partiti gli scontri e i massacri, che sia nuovamente emersa una volontà di stabilizzazione dell’area basata eminentemente sulla forza bruta e non più su accordi di pace.
Dinanzi alla prospettiva di una costruzione commerciale e finanziaria antagonistica a quella cinese sono emersi talmente tanti conflitti di interessi che hanno dato luogo ad una riesplosione del conflitto in Medio Oriente. Ciò non riguarda più soltanto e semplicemente i palestinesi (che, come purtroppo capita, spesso diventano carne da cannone e ciò purtroppo è accaduto anche in passato) ma riguarda i disequilibri politici dell’area che coinvolgono il Libano, l’Iran, il Qatar e le forze politico-militari vicine agli Stati Uniti, Israele in primis.
Il tentativo di accordo che veniva a configurarsi su basi prettamente commerciali e finanziarie, è un accordo che si punta ad ottenere, oggi, attraverso violenza, guerra e massacro, o meglio: attraverso il genocidio.
Ho fatto questo esempio, e analizzato la fenomenologia di una guerra apparentemente molto lontana dalle questioni economiche, per mostrare che se non si parte dal grande scontro economico e dalla sua analisi non si capisce un bel niente dei venti di guerra contemporanei. In particolare, bisogna rendersi conto che viviamo un’epoca di crescente violenza bellica, in virtù del fatto che essa è segnata da un progetto americano, chiamato “friend-shoring”.
Questo è un progetto di divisione economica del mondo in due blocchi: gli Americani, che sono stati per lungo tempo propugnatori della globalizzazione e dell’apertura globale agli scambi mondiali, si sono ritrovati, soprattutto a partire dalla grande recessione del 2008, a fare il bilancio della globalizzazione. Si sono resi conto che questo bilancio non era molto favorevole all’economia e al capitalismo americano e quindi hanno deciso di attuare una grande svolta di politica economica: non più globalismo ma protezionismo, non più apertura ma chiusura commerciale e finanziaria, non più rilancio del libero scambio mondiale ma appunto “friend-shoring”; dove per “friend-shoring” gli americani intendono che d’ora in poi debbono fare affari soltanto i loro alleati e occorre invece chiudere le porte ai cosiddetti nemici.
Se non si comprende che i venti di guerra di questo tempo sono il prodotto di questa grande svolta di politica economica del capitalismo americano, che comporta reazioni da parte degli altri capitalismi in lotta (cinese, russo e così via) allora non capiamo un bel niente di questa epoca e non riusciamo nemmeno a costruire delle proposte politiche antagonistiche. Ossia delle proposte politiche valide di costruzione della pace.
Credo che, da questo punto di vista, nel nostro paese ci sia un problema: la linea di politica estera dell’Italia in questo grande scenario di lotta economica – e quindi anche di lotta militare – ha compiuto una svolta smaccatamente guerrafondaia.

LA POLITICA ESTERA ITALIANA DALLA MODERAZIONE AL BELLICISMO

L’Italia è stata caratterizzata storicamente da una politica estera di equilibrio, ovviamente atlantista ma pur sempre di equilibrio, soprattutto nelle decisioni commerciali e finanziarie. Essendo stata per lungo tempo, ed essendo tuttora, un paese crocevia dei commerci internazionali, che interagisce dal punto di vista della bilancia dei pagamenti con tutto il mondo, durante la prima Repubblica e anche all’inizio della cosiddetta terrificante “seconda Repubblica” l’Italia ha avuto appunto una politica estera di equilibrio.
Ora non è più così: il nostro paese si contraddistingue per una politica estera talmente aggressiva, talmente guerrafondaia, che ormai possiamo essere annoverati nella logica dello scacchiere politico internazionale tra i paesi maggiormente esposti ad una posizione filoamericana al pari dei paesi dell’Est europeo storicamente antagonistici nei confronti del blocco orientale (Polonia, Romania e Ucraina di Zelensky, non quella di Yanukovich). L’Italia è un paese che oggi ha fatto una scelta non semplicemente atlantica, come è sempre stato, ma una scelta di atlantismo aggressivo.
Sebbene le decisioni in seno alla NATO fossero secretate, per quel che ci risulta l’Italia è sempre stata molto morigerata riguardo le decisioni belliche. L’Italia oggi invece vota con i paesi più aggressivi ed è una questione che deve diventare un punto politico decisivo; si tratta di una questione su cui si giocherà il futuro, e con esso le condizioni della lotta politica e della lotta sociale nel nostro paese. E’ quindi una questione che deve essere messa al centro delle vertenze e delle iniziative politico-sociali.
Bisogna partire da una consapevolezza: la guerra non ha a che fare con motivazioni etiche, non ha a che fare con motivazioni etniche o religiose, non ha a che fare con la psichiatria e non ha a che fare nemmeno con la banale decisione attinente ai confini territoriali.
La guerra riguarda gli affari, i movimenti di denaro, le decisioni attinenti alle linee commerciali e finanziarie di movimento dei capitali, e riguarda il fatto che ci si trova in uno scenario di divisione del mondo in blocchi. Uno scenario delineato sugli interessi strategici americani e che non è detto che siano gli interessi strategici dell’Europa e degli alleati statunitensi.
Si parte da qui per costruire consapevolezza, per fare critica dell’economia politica e della politica economica e per poter sgombrare il campo dalle mistificazioni prevalenti di questo tempo.
Credo che costruire un ragionamento complesso, articolato ma molto aderente ai fatti, sia un compito cruciale per tutte le organizzazioni orientate all’emancipazione sociale, al progresso civile e quindi, evidentemente, un compito cruciale per un sindacato conflittuale che voglia essere all’altezza dei tempi.