CGIL e categorie. La confederalità valore e fondamento della CGIL - Federico Antonelli

Mentre la raccolta di firme per i referendum promossi dalla CGIL volge positivamente al termine, voglio tornare sulla dinamica della campagna referendaria nel rapporto organizzativo e politico tra le categorie e la Confederazione, su un tema che nei prossimi mesi, allargando il campo ai referendum probabili su autonomia differenziata, giustizia e – soprattutto – premierato, coinvolgerà pesantemente la CGIL.

Quando mi approcciai alla FILCAMS-CGIL negli anni giovanili, da delegato in azienda, tutta la formazione che veniva organizzata a Milano era di carattere confederale. C’erano alcuni corsi di formazione che avevano origine nella categoria, ma la scelta politica ed organizzativa era tutta incentrata sulla vita della confederazione e nello sviluppo delle politiche confederali. Questo determinava un fortissimo legame tra il delegato di azienda e il valore della confederalità che segnava la sua azione politica sindacale. Certamente i temi contrattuali, le politiche dei quadri, le dinamiche imprenditoriali dei settori della FILCAMS-CGIL erano molto importanti e non venivano trascurati, ma sempre in un rapporto stretto con l’orientamento che le politiche confederali definivano.

Ricordo la grande campagna “Tu sì, tu no” (2002) con un coinvolgimento assoluto delle strutture di categoria chiamate ad organizzare la presenza alle manifestazioni e soprattutto a raccogliere le firme, che ricordo allora erano solo una forma di sostegno popolare alle politiche della CGIL di contrasto alla precarietà, alle novità del mercato del lavoro (allora uno sconvolgimento lacerante anche al nostro interno) e contro il progetto di riforma dello statuto dei lavoratori che il governo Berlusconi aveva progettato con l’appoggio esplicito della CISL. La grande mobilitazione di allora accese animi e passioni che la politica dei redditi aveva sopito per qualche anno e la scelta della segreteria Cofferati di contrastare con vigore inaspettato quelle riforme mobilitò le masse di lavoratrici e lavoratori. La visione generale dei temi del lavoro era ancora molto forte e noi delegati ne eravamo impregnati grazie alla formazione, al dibattito a cui assistevamo nei direttivi anche di categoria e più in generale nell’assetto politico e di coordinamento di tutta l’organizzazione.

Oggi, a quasi 20 anni di distanza, sembra che le cose siano completamente diverse. Nell’Assemblea generale che ha deciso il percorso referendario alcune categorie hanno dichiarato di votare sì alla scelta della confederazione, ma esprimendo un dubbio organizzato e visibile, esplicitato con un ordine del giorno. Un fatto inedito che apre a diverse riflessioni. Nel corso della campagna, abbiamo avuto modo di osservare un impegno non omogeneo delle nostre categorie nella raccolta delle firme. Non è stata imposta una campagna di assemblee, per esempio, a meno che non lo abbiamo deciso singole strutture a macchia di leopardo, ma la comunicazione alle lavoratrici e lavoratori della raccolta firme e delle sue ragioni è stata affidata alla buona volontà dei singoli funzionari o ai social. La nostra realtà variegata e complessa e non si pone un tema di fiducia nelle strutture, nel giudizio sulla volontà di lavoro di compagne e di compagni con responsabilità di coordinamento politico all’interno delle categorie. Qua si vuole osservare come nell’’organizzazione il legame tra le scelte politiche della confederazione e quelle delle categorie sia molto meno forte di un tempo. Sembra si stia realizzando nei fatti senza che nessuno lo teorizzi, un distacco forte fra ciò che a livello di politiche generali la confederazione mette in atto e ciò che invece le categorie organizzano. Una, la confederazione, ha la delega completa alla gestione delle politiche generali (inteso come sostegno e carico organizzativo/politico), gli altri, le categorie, si dedicano alle politiche di settore e contrattuali, ma senza una visione completamente confederale. La delicatezza dell’argomento meriterebbe molte pagine: non si vuole sostenere che le categorie viaggino per conto proprio, senza rispettare i dettami confederali. Semplicemente sembra che gli ambiti di azione delle strutture della nostra CGIL divengano sempre più nettamente distinti. Sarebbe una deriva di tipo corporativo. Così operano ad esempio i compagni della UIL!

Questa evoluzione è un atto compiuto? Questa dinamica è un fatto consolidato? Questa esperienza è in corso di sua conclusione? Non credo. Ancora molto di ciò che ha carattere generale entra con forza nella vita delle categorie: ma se la presenza alle manifestazioni confederali più che un atto politico diventa una manifestazione di forza da far valere nelle discussioni interne qualche cosa rischia di rompersi. Abbiamo raccontato tutti una realtà riconosciuta e storicamente affermata, ma che sulla cui attualità io credo sia un bene aprire una riflessione che per quanto riguarda noi di “Lavoro Società” deve partire dalla forte centralità confederale, indispensabile oggi più che mai. Per la nostra aggregazione il valore della confederalità deve esprimersi in ogni istanza dell’organizzazione ed essere a riferimento delle nostre politiche contrattuali, organizzative e politica. Per questo il distinguo ci ha preoccupato organizzato di FILT, FILLEA e SLC all’assemblea generale della CGIL sul voto d’avvio della campagna referendaria anche se condividevano le preoccupazioni e i timori sul piano organizzativo e delle tempistiche; non vogliamo neppure nella prassi una distinzione tra categorie e CGIL, non più in un rapporto di diretta emanazione ma di adesione autonoma e non strutturale.

Lo diciamo oggi, come in passato lo abbiamo detto quando la FIOM assumeva un carattere concorrenziale verso la Confederazione, o quando questo rischio si è palesato con lo SPI: la CGIL sindacato generale, confederale e di classe è il bene più prezioso del movimento dei lavoratori in Italia. La sinistra sindacale deve preservarlo e rafforzarlo!


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