La Grande Delusione Organizzata - di Costantino Loi

Oggi sarebbe ineludibile una contrattazione che non si limiti al tempo di lavoro e alla sua retribuzione, ma che pretenda di contrattare come il tempo venga riempito

La crisi che la Grande Distribuzione Organizzata vive soprattutto nell’ultimo decennio ha avuto profondi effetti sulle lavoratrici e sui lavoratori del settore, principali se non spesso unici destinatari di politiche nazionali e scelte datoriali che nella loro precarizzazione e nell’inumana flessibilità hanno visto la soluzione più semplice ai numerosi problemi strutturali che affliggono il settore.

Mentre le aziende cercano senza una prospettiva etica di adattarsi a un mercato in continuo cambiamento, le lavoratrici e i lavoratori si trovano ad affrontare problemi senza precedenti, vedendo ripetutamente cambiare in modo significativo le proprie condizioni di lavoro e la sicurezza occupazionale.
Essere assunti dopo lo spartiacque del 7 marzo 2015, ha voluto dire per molti conoscere un mondo lavorativo completamente diverso, più precario e meno tutelato di quello vissuto da colleghi con cui spesso lavorano fianco a fianco.

Soprattutto è un mondo che, visto con gli occhi di una lavoratrice o di un lavoratore under 30 nel 2024, non è più attrattivo come poteva esserlo anche solo 15 anni fa.

La prima e forse più pesante problematica è dettata dall’instabilità: i processi di “ristrutturazione” nascondono spesso il ridimensionamento o la chiusura dei punti vendita meno redditizi, con conseguente riduzione della qualità o dei posti di lavoro. La perdita del lavoro per i dipendenti del settore è diventata infatti una possibilità sempre meno remota, ma anche quando il licenziamento non è immediato, l’incertezza economica e la precarietà diventano comunque la norma.

Per le lavoratrici e i lavoratori che riescono a mantenere il proprio impiego, l’intensificazione del carico di lavoro è diventata l’altra inevitabile alternativa alla perdita del lavoro.

La riduzione del personale o l’abuso nell’utilizzo di part-time involontari, infatti, quasi mai corrisponde a una diminuzione proporzionale delle attività da svolgere, il che significa che i dipendenti in forze devono assumere maggiori responsabilità e lavorare più ore, con meno tutele, per compensare la carenza di personale.

Quanto alle mansioni, mentre in passato il focus era principalmente sulle competenze operative e di vendita al dettaglio, oggi lavoratrici e lavoratori devono adattarsi a nuove tecnologie, sistemi di gestione e algoritmi, vedendo il proprio tempo di lavoro continuamente riempito di nuove responsabilità.

Come sindacato dovremmo interrogarci più spesso su quanto sia per noi oggi imprescindibile una contrattazione che non si limiti alla determinazione del tempo di lavoro e la sua retribuzione, ma che pretenda di discutere, appunto, sulla definizione di come quel tempo venga riempito e sulla sua qualità. Mentre le aziende, cercando di ridurre i costi e di mantenere una maggiore flessibilità operativa, preferiscono stipulare contratti part-time e a breve termine anziché offrire posizioni full-time e a tempo indeterminato, questa precarietà contrattuale ha un impatto sempre più negativo sulla stabilità economica delle nostre lavoratrici e dei nostri lavoratori e sulla loro capacità di pianificare a lungo termine.

Viene così giorno dopo giorno influenzata negativamente la loro percezione e l’attrattività stessa di questo mondo lavorativo complesso, prefigurando all’orizzonte una fuga verso altri settori. Questo clima di profonda incertezza che convive con le crescenti aspettative aziendali in termini di produttività ha portato infatti ad un deterioramento delle condizioni di lavoro, non solo a livello fisico, ma anche psicologico.

Tantissime lavoratrici e lavoratori della GDO soffrono un aumento della pressione psicologica e dello stress, dovuta alla necessità di adattarsi rapidamente alle sempre maggiori pretese, ai continui cambiamenti ed agli obiettivi di risultato, nonché alla paura costante di perdita del lavoro. Il culmine si è avuto con l’esplosione negli ultimi anni del numero degli episodi denunciati di burn-out e con il fenomeno collegato delle grandi dimissioni. La GDO ha cominciato così a mostrare le prime crepe di un mondo lavorativo che fino a quindici anni fa era considerato “buon lavoro”.

Questo prima dei turni antisociali, delle domeniche e dei festivi sempre a lavoro, prima dei part-time come regola e non eccezione, prima dell’uso smodato dei contratti a termine, del Jobs Act e dell’abuso tecnologico degli algoritmi.

Immaginiamo una lavoratrice di 25 anni che viene assunta in una GDO con contratto part-time di 20 ore settimanali. Immaginiamo che in questo caso la lavoratrice sia così fortunata da non fare prima un anno di lavoro in somministrazione per la stessa azienda.

Quali sono le prospettive future che dovrebbero convincerla a non guardarsi immediatamente attorno per cercare un’alternativa in altri settori? L’instabilità che per uno o due anni la costringerà a non poter dire un “no” perché a rischio di rinnovo contrattuale? Le 20 ore settimanali che forse diventeranno 24 o 30 ma mai 40 e non le permetteranno di rendersi economicamente indipendente? Il mutuo che non potrà chiedere da sola? Il fatto che un lavoro che occupa a maggioranza giovani e donne non sia minimamente pensato per garantire diritto allo studio e genitorialità?

Oppure la possibilità a 45 anni, dopo averne spesi 20 in una GDO, di venire trasferita in un punto vendita a centinaia di km di distanza in virtù di una “ristrutturazione” aziendale? O di venire licenziata perché il suo punto vendita non è in perdita ma non risulta più abbastanza produttivo? Perché una lavoratrice dovrebbe oggi investire la propria vita lavorativa in un settore che pretende tanto senza dare quasi niente in cambio, ma che anzi pretende di mettere nero su bianco nella lettera di assunzione gli strumenti con cui potrà disfarsi di lei quando non ne avrà più bisogno o gli costerà troppo?

Ci hanno detto per decenni che dovremmo ringraziare quando abbiamo un lavoro. La vera sfida negli anni a venire sarà insegnare, in questo e in altri settori, che le aziende dovranno considerarsi fortunate se le lavoratrici e i lavoratori decideranno di lavorare per loro.

Le aziende dovranno capire che costruire un lavoro a misura di persone non è una bizzarra filosofia sindacale, ma l’unico modo per superare la crisi che si abbatterà sul settore nei prossimi anni.


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