Le dimissioni di Sandro Bondi da coordinatore del Pdl segnano un punto di non ritorno. Il partito personale di Silvio Berlusconi, il partito del predellino non c’è più. Un recente sondaggio commissionato dal Cavaliere per valutare l’appeal di una nuova formazione politica dall’evocativo nome “forza Silvio” registra un gradimento inferiore al 10%. Dietro al Partito democratico, dietro anche a Beppe Grillo. Il re è nudo, e non è un bello spettacolo. Bondi se ne rende conto, sbatte l’ormai politicamente cadente portone di via del Plebiscito, definisce apertamente deleteria l’insistenza del Pdl a sostenere il governo Monti e le sue politiche “antipopolari”. Il senso di responsabilità instillato con quotidiana regolarità dal capo dello Stato Giorgio Napolitano lascia il passo alla nuda e cruda analisi dei fatti. E i fatti dicono che il Pdl non c’è più, due elettori su tre lo hanno abbandonato. Se a Parma i berlusconiani di una volta hanno avuto la pensata di votare Grillo, nelle altre città della penisola da Lucca a Palermo, da Como a Genova si sono dissolti, come nei vecchi film di fantascienza. Ma il voto amministrativo delle scorse settimane non è fantascienza, è una realtà tangibile con cui dover fare i conti. Ammesso sia ancora possibile.
L’addio di Bondi azzera nei fatti il triumvirato, che aveva costituito con Denis Verdini e Ignazio La Russa. Quella era l’immagine più nitida del berlusconismo imperante, ora è una foto strappata a metà. Altro che quella di Vasto. L’anti-montismo di Sandro Bondi ha un che di peloso: quella del professore di Goldman Sachs era o non era l’unica scelta possibile per non consegnare il paese al comunista Bersani, e continuare ad inseguire il sogno del polo dei (cosiddetti, ndr) “moderati”? Da che pulpito viene la predica. L’ex ministro della Cultura – l’uomo che verrà ricordato nelle cronache italiane come il ministro del crollo di Pompei, sfiduciato per le sue prodezze da uno dei due rami del Parlamento – gira le spalle all’amato capo, quel Berlusconi che era stato il suo massimo ispiratore di rime, poesie, stornelli.
Certo, non è la prima volta che Bondi si fa notare annunciando l’addio al partito. Già il “caso Pompei” era stato il detonatore di uno sfogo che lo aveva portato a prendere le distanze dal Pdl, colpevole di non averlo difeso dopo la catastrofe archeologica. Anche dopo le amministrative 2011 Bondi sentenziava: “Valutati i risultati elettorali intendo rimettere il mio mandato nelle mani del presidente Berlusconi”. Fra il dire e il fare c’era sempre di mezzo il mare. Sarà la volta buona? All’ultima riunione tra Berlusconi e lo stato maggiore del Pdl hanno partecipato anche il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e l’ex ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Sul tavolo i risultati delle amministrative, le dimissioni di Bondi, le frequenze tv e le prossime nomine all’Agcom. Sulla crisi del partito è intervenuto anche il senatore Altero Matteoli, un ex ministro, uno che ha sempre contato non poco nel polo berlusconino: “Alfano dopo Berlusconi ha fatto miracoli, non poteva fare altro con la personalità che aveva l’ex premier”. E poi ancora: “Cambiare nome al partito non mi sembra la soluzione, bisogna inventarsi un’altra strategia”.
Gli ex An scalpitano, forti del fallimento dell’operazione portata avanti dal loro odiatissimo ex Gianfranco Fini. Ma se l’erba del vicino terzopolista non è mai cresciuta, quella del Pdl è quasi interamente bruciata. Più che il delfino del Cavaliere, Angelino Alfano appare come il suo parafulmine. Angelino agnellino sacrificale. L’ex ministro della Giustizia ha ereditato il partito inesistente, come il cavaliere di Italo Calvino. L’ultimo dei giapponesi è Daniele Capezzone, portavoce di un partito che non c’è: “Ripartiamo da meno tasse”, annuncia stentoreo. Sai che risate a palazzo Chigi. La verità è che l’unico incontrastato leader del Pdl è stato Silvio Berlusconi. Un Berlusconi che ora cerca affannosamente un erede, che non è Alfano. Gli piacerebbe Luca di Montezemolo, anche per cercare di agganciare al suo sempre più traballante carro pezzi di Confindustria e i terzopolisti in libera uscita. Ma l’uomo Ferrari è abituato ad andare a trecento all’ora. E ora come ora a trecento all’ora va solo Beppe Grillo. Le ultime parole del Cavaliere hanno invece molto di antico: “Noi vogliamo cercare di costruire in Italia il Partito popolare europeo e quindi una formazione, chessò una federazione per l’Italia, in cui si riconoscono tutti gli italiani che non si riconoscono nella sinistra”. Se pensa al Pd, ha sbagliato obiettivo.
Frida Nacinovich