Relazione di Federico Antonelli all’Assemblea nazionale di Perugia, 23/24/25 febbraio 2022
Buongiorno, Compagni e Compagne.
Ci ritroviamo a Perugia a due anni e mezzo di distanza dal precedente seminario di Rimini, del 2018. Credo che nessuno di noi abbia la percezione che siano passati solo due anni e mezzo: sembra una vita.
Ai nostri lavori partecipano compagne e compagni che provengono da Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna e naturalmente Umbria. Una rappresentanza che ci riempie di orgoglio e responsabilizza. Dico “ci” perché, come tutto ciò che facciamo, anche questo seminario è frutto di un lavoro di squadra, collettivo, che senza l’impegno di molti non avrebbe potuto essere realizzato. Li voglio citare prima di iniziare per ringraziarli e dare subito un segnale di una delle cose che più mi stanno a cuore. La CGIL, la nostra aggregazione, sono la realizzazione di una intelligenza collettiva, in cui ognuno di noi deve mettersi a disposizione, con umiltà e passione, per il ruolo che gli compete, per fare della CGIL ciò che l’articolo uno del nostro statuto richiama: La Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) è un’organizzazione sindacale generale di natura programmatica, unitaria, laica, democratica, plurietnica, di donne e uomini.
Il nostro lavoro di squadra si è avvalso quindi del ruolo centrale di Andrea Montagni, che ancora rappresenta molto nella nostra area e nella nostra categoria, del lavoro organizzativo di Francesca Albonico, che con il CEMU ha curato ogni aspetto di questi tre giorni, del coordinamento per i lavori seminariali che faremo nella giornata di domani curato da Francesca Mandato della FILCAMS Nazionale, del rapporto con il territorio di Perugia e dell’Umbria delegato a Vasco Cajarelli e ai compagni Claudia Nigro, Massimo Cuomo, Matteo Baffa, Luigi Celentano, Maddalena Ruiu e gli stessi Vasco e Andrea che mi hanno aiutato nella stesura di questa relazione. Vorrei anche ringraziare tutti gli ospiti che ci fanno l’onore di essere con noi. Compagne e compagni di altre categorie, a partire dallo SPI, e naturalmente Giacinto, Maurizio, Leopoldo che cito in rappresentanza di tutti quanti. Al termine dei tre giorni avremo anche la presenza di Massimo Frattini, compagno e amico di UNI che segue a livello internazionale il settore degli alberghi e del turismo e infine avremo anche l’intervento e il saluto della nostra Segretaria generale, Maria Grazia Gabrielli. Un ringraziamento va naturalmente infine alla CGIL di Perugia, alla FILCAMS di Perugia che sono qua con noi e che Riccardo ha rappresentato con il suo saluto introduttivo. Infine ringrazio tutti i relatori che accompagneranno il nostro lavoro e ci offriranno spunti di riflessione importanti. Grazie a tutti!
Vorrei iniziare i nostri lavori con un attimo di silenzio e un pensiero per tutti coloro che ci hanno lasciato in questi due anni e mezzo, i nostri nonni, genitori, sorelle e fratelli, amici, che non sono stati in grado di superare indenni la pandemia.
In questo nostro momento di raccoglimento vorrei pensassimo anche a chi ci ha lasciato andando a lavorare una mattina.
Non è accettabile che un uomo, una donna, una ragazza o un ragazzo perdano il bene unico della propria vita andando a lavorare per guadagnarsi di che vivere, e per sostenere la propria esistenza, i propri sogni e desideri.
Le morti sul lavoro sono un’emergenza nazionale che rappresenta il livello di sfruttamento che vive il mondo del lavoro italiano. Quando un ragazzo come Lorenzo, in stage formativo, muore, significa che il sistema, e la cultura di base che lo regola è malato nel profondo, in modo quasi incurabile.
Attimo di riflessione che vorrei dedicassimo anche a tutti coloro che perdono la vita nel mare Mediterraneo o sui confini di terra e che noi, mondo occidentale ricco, cieco e sordo dimentichiamo troppo facilmente.
Le stragi che si stanno consumando nel Mediterraneo, nei posti di lavoro, sui cantieri edili, nelle fabbriche, nonostante siano generate da cause diverse, hanno un comune denominatore: l’aspirazione verso una prospettiva diversa e più serena, la speranza di una vita migliore per sé e per i propri figli, ma anche l’urgenza di scappare da guerre e violenze. Queste morti hanno tutte origine da una verità che viene occultata da una narrazione che racconta particolari irrilevanti e che ne trascura la vera origine, fatta di oppressione di classe, di mancanza di tutele e controlli, di un sistema scolastico e produttivo votato al profitto fin dalle sue base formative, senza rispetto per la vita umana e il diritto al lavoro e all’istruzione.
109 sono le donne uccise nel 2021 in ambito “familiare”.
Storie diverse, unite da un unico spietato movente: l’incapacità di noi uomini di riconoscere la libera volontà di una donna che sceglie di allontanare un partner violento o semplicemente non più amato.
Sono tante le riflessioni che potremmo fare su questo argomento, sul perché la nostra società continui a considerare i corpi delle donne un oggetto nelle mani degli uomini, sul perché, in ogni momento della giornata, le donne debbano subire più o meno espliciti atti di violenza da parte degli uomini (che spesso si concretizza, banalmente, con un apprezzamento non gradito) fino ad arrivare al gesto di estrema sopraffazione e di affermazione della superiorità fisica maschile che è il femminicidio.
Questo seminario arriva alla fine di anni segnati da grande fatica e preoccupazione per tutti noi.
La pandemia ancora morde le nostre vite e non si sono esaurite le paure e i problemi che abbiamo dovuto affrontare in questo lungo periodo. Quando i primi casi di persone infette dal nuovo virus furono scoperti in Italia, nessuno poteva immaginare che questa nuova malattia avrebbe sconvolto così le nostre vite. Ricordo bene i discorsi di quei giorni e in parte la leggerezza con la quale si affrontavano le prime notizie.
Un’influenza come un’altra, forse un po’ più pesante ma nulla più di questo.
Con il virus tutti quanti abbiamo dovuto confrontarci con uno stato dell’animo che non conoscevamo: quello della paura collettiva. Ma il virus non ha stravolto le nostre vite soltanto con la paura e con la permanenza forzata nelle nostre case. Il virus ci ha costretto a confrontarci, in maniera rinnovata, con le disparità sociali, con una crisi economica che nessuna narrazione poteva circoscrivere. Abbiamo imparato che il confinamento non era una livella che equiparava tutti ma, al contrario, era una bomba che ha reso ancor più evidenti, senza mediazioni, le differenti possibilità che la nostra società iniqua offre.
In quei lunghi mesi abbiamo sentito dire che serviva più stato, che i cittadini non potevano essere lasciati soli di fronte alla crisi e infatti alcuni provvedimenti, indispensabili, furono assunti. Gli ammortizzatori sociali estesi a tutte le categorie di dipendenti, il blocco dei licenziamenti, alcuni interventi legislativi che avevano la funzione di offrire ristori a quella classe lavoratrice autonoma, che autonoma non è, sono stati provvedimenti utili. I protocolli sanitari sono stati un’esperienza importante, fondamentale! Arrivata però tardi, quando nella mia Lombardia troppi imprenditori avevano fatto finta di nulla pur di non fermare la produzione. Le responsabilità di Assolombarda e di una parte consistente del mondo delle imprese in quei giorni fu assoluta: con disprezzo della vita delle persone, mostrando la faccia peggiore di una classe imprenditoriale senza scrupoli né cultura, nelle aziende lombarde si propagò il virus che poi uccise troppe persone.
In seguito, il presidente di Assolombarda si permise di vantare il modello di relazioni sindacali avviato con i protocolli di tutela dalla diffusione del covid, dimenticando che il silenzio e le omissioni della sua associazione avevano cancellato una intera generazione, nella mia ricca regione.
Come dicevo all’inizio della relazione, il virus e la pandemia hanno cambiato le nostre vite e la modernità appare molto diversa da come avremmo potuto immaginarla.
Nuove forme di organizzazione del lavoro, nuove abitudini, le relazioni sociali che il lavoro permette ridotte al minimo, sono novità potentissime con le quali dobbiamo confrontarci quotidianamente.
La situazione internazionale
In queste ore, in questi giorni si sta consumando una crisi che lascia tutti noi preoccupati e in ansia. Ciò che sta accadendo in Ucraina è di difficile interpretazione, per la complessità della storia della regione, per l’intreccio degli interessi in ballo che coinvolgono tutte le grandi potenze, per la lunghezza di un conflitto che troppo spesso ci si dimentica di dire ma non nasce oggi. Su questa complicatissima crisi voglio solo fare due considerazioni: io temo molto la narrazione che si fa da noi di questa crisi che sembra essere funzionale a giustificare un conflitto dalle conseguenze non prevedibili assegnando la responsabilità di tutto alle mire russe sull’Ucraina. E penso alle popolazioni locali, le minoranze russe ma anche la maggioranza ucraina che si ritrovano al centro di un conflitto permanente che ne distrugge le vite. E noi oggi, pur nel dinamismo di una situazione sempre più complessa non possiamo fare altro che ribadire quanto detto nell’ordine del giorno che l’assemblea di organizzazione di Rimini ha votato: la richiesta di una neutralità attiva che promuova un accordo fra tutte le parti, con la pace sempre al centro del nostro agire.
Questa crisi è anche causata da una situazione internazionale che è sempre più complicata. La fine del bipolarismo seguita al dissolvimento dell’Unione Sovietica e allo scioglimento del Patto di Varsavia, invece di portare, come qualcuno si era illuso, al predominio totale degli Stati Uniti, ha determinato, nel corso di questi trent’anni, una instabilità internazionale piena di pericoli, ha visto scatenarsi guerre di aggressione da parte degli USA, l’emergere di nuove potenze regionali che cercano di farsi spazio, ha generato una nuova contrapposizione sistemica tra USA e Cina e si è accompagnata ad una crisi economica iniziata in Europa nei primi anni 90 con alti e bassi e poi generalizzatasi alle soglie del XXI secolo. Dentro questa crisi politica internazionale ci siamo ancora e tanti paesi – come il nostro – sono ancora nel profondo di una crisi economica che è non solo distributiva, ma è anche crisi di allocazione di risorse, di riorganizzazione dei mercati, di brutale aggressione di classe nei confronti del lavoro, con un processo di precarizzazione e impoverimento dei salari.
Il trionfo del liberismo politico (negli USA e in Occidente) si è accompagnato inscindibilmente al trionfo del liberismo economico che ha liquidato il capitalismo caritatevole e le politiche keinesiane di redistribuzione. Tutto questo con il concorso delle forze politiche, apparentemente progressiste, europee e statunitensi che con leader come Clinton, Blair e in Italia Renzi (ma non solo) hanno dato una veste nuova al capitalismo e al liberismo economico, associato, con visione astuta e raffinata, alla democrazia e alla difesa dei diritti sociali, in un matrimonio impossibile ma ben sponsorizzato.
La pandemia ha scosso il mondo senza minare però questa dinamica.
Su scala mondiale, i vaccini restano un affare economico per le multinazionali del farmaco e uno strumento politico nei confronti dei paesi poveri.
Nel frattempo cresce la tensione tra le potenze e nuovi focolai di guerra si accendono e quelli già accesi non si spengono. Pensiamo al martirio dei popoli somalo, siriano, libico, alle sofferenze delle popolazioni russe dell’Ucraina di cui ho già parlato, alla guerra civile in Etiopia.
Ma cresce anche l’esigenza insopprimibile dei popoli alla libertà.
Cuba resiste, e anzi porge il suo aiuto anche agli altri paesi nella lotta alla pandemia, Non dimenticheremo mai le equipe mediche cubane intervenute nel nostro paese, rimosse dai ricordi ufficiali!
Il Venezuela ha superato una crisi durata 2 anni ed è sottoposto a sanzioni mentre affronta la crisi pandemica, e contemporaneamente prosegue la pressione militare della Colombia alle sue frontiere. Il popolo boliviano ha sconfitto un golpe e ripreso il proprio cammino. La sinistra avanza in tutte le elezioni in America del Sud. I kurdi di Turchia e Siria continuano a battersi per la pace, la democratizzazione dei loro paesi e continuano la guerra contro lo Stato Islamico. In Kazakhistan la popolazione si è ribellata al regime oligarchico chiedendo condizioni di vita migliori e un diverso sistema di redistribuzione sociale. In Libano da due anni il movimento sindacale e la gioventù continuano a battersi contro le divisioni settarie, le politiche liberiste nel quadro di una devastante crisi finanziaria ed economica. In Sudan, il movimento popolare, pacifico e di massa, ha cacciato il regime islamista e ora cerca di liberarsi dal soffocante regime militare con una mobilitazione continua. Il Sudan non vuole finire come l’Egitto! In Birmania la gioventù e le nazionalità oppresse proseguono l’opposizione civile, di massa e politico-militare contro i generali traditori. Negli Stati Uniti, il cuore dell’impero, la mobilitazione dei sindacati dei lavoratori, la lotta degli afroamericani e dei latini per l’uguaglianza, un poderoso movimento antifascista hanno favorito la sconfitta di Trump alle elezioni e riacceso tante speranze (speriamo non completamente annientate dall’odierna crisi ucraina e dall’atteggiamento americano).
Non possiamo né vogliamo dire che siccome grande è il disordine sotto il cielo, la situazione sia eccellente. Ma guardiamo con ottimismo una realtà dinamica in trasformazione e sappiamo – come è tradizione della CGIL e della sinistra di classe – da che parte stare: dalla parte della pace, dei diritti dei lavoratori, della libertà e la democrazia: la libertà “vera”, non quella votata al consumismo senza altro scopo degli opuscoli di propaganda dei governanti statunitensi; noi siamo dalla parte della libertà di cui scrivevano Karl Marx, Gramsci e tanti anni dopo Sandro Pertini ed Enrico Berlinguer.
Una piccola nota di fiducia anche in Europa, nonostante i venti di guerra al confine orientale, qualcosa si muove. Là dove i partiti socialisti non hanno reciso i legami con il movimento operaio organizzato e i sindacati, in Germania, Spagna, Portogallo, i paesi nordici, c’è di nuovo spazio per l’agire politico e per rimettere in discussione le politiche liberiste.
Una parola finale, senza nulla dire perché tutto è detto solo a farne il nome: Palestina! Agli uomini, le donne di Palestina, ai loro sindacati, ovunque siano nei campi profughi in Libano, a Gaza, nei territori “autogovernati”, nei territori occupati, nella diaspora va il nostro abbraccio fraterno, solidale e di lotta!
La situazione nazionale
In questi due anni e mezzo si sono succeduti due governi: si è passati dal Governo a guida Conte, con la cosiddetta coalizione giallo/rossa al Governo Draghi. Un esecutivo di larghe intese che si è assunto il ruolo di governare la crisi sanitaria, la campagna vaccinale e soprattutto l’elaborazione del PNRR. Il grande flusso di denaro che la comunità europea ha destinato al nostro paese e che il piano ha concretizzato.
Era chiaro che una simile partita non poteva essere lasciata in mano a un Governo di cui la grande impresa e la finanza non si fidavano. Servivano certezze, serviva l’assicurazione che le riforme che l’Europa pretendeva fossero realizzate. Serviva l’assicurazione che il piano non fosse lasciato a chi non offriva un riferimento certo rispetto a tali questioni e agli interessi dominanti.
Draghi ha messo d’accordo tutti. La sua autorevolezza è stata spesa per poter riportare le pensioni indietro alla riforma Fornero. Ha deciso di avviare una campagna di riforma del reddito di cittadinanza. Ha avviato una riforma fiscale che accontentasse i grandi redditi, rendendo immutata la fiscalità verso le grandi rendite finanziarie, che non tocca i profitti delle grandi compagnie multinazionali e che non opera una politica redistributiva sui redditi medi e medio bassi, come sarebbe corretto fare. Insomma con Draghi il paese ha ridefinito un quadro di riferimento politico più stabile e utile a riavviare, su basi diverse ma immutati obiettivi, le politiche economiche liberiste di cui siamo vittime da anni. (le fibrillazioni odierne credo siano più legate all’avvio della campagna elettorale che a veri moti di dissenso ai provvedimenti assunti dal governo).
Nella relazione di Andrea di due anni fa, [“la nuova sinistra sindacale…” in Reds, 10 bis deò 28 ottobre 2019, ndr] si legge di come le diseguaglianze crescano, di come le politiche economiche penalizzino il lavoro e di come la precarietà sia uno strumento sempre più utile a consolidare processi di sfruttamento del lavoro che ampliano la forbice tra ricchezza e povertà. Non è cambiato nulla, pur essendo mutato il contesto.
I dati che l’ISTAT ha elaborato alla fine del mese di gennaio, relativi ai dati occupazionali del mese di dicembre, rendono chiara la visione di un paese in cui il lavoro dei giovani, delle donne e l’occupazione in generale prende la direzione della precarietà in maniera decisa: nel periodo indicato, dei circa 500mila nuovi posti di lavoro creati, 400mila sono contratti a termine. Un rapporto eccezionale che fa emergere una vera e propria emergenza. Che futuro è assicurato a una generazione che può contare solo su forme di occupazione precarie, che idea del lavoro si sta producendo, che scelta politica si sta operando? Purtroppo un Governo come quello che abbiamo oggi, un Governo fatto a immagine e somiglianza di un consiglio di amministrazione, consolida l’idea che attraverso la flessibilizzazione del lavoro si possa produrre occupazione, senza definire quale forma dargli.
Il lavoro precario è buono per le statistiche: è buono perché produce speranze iniziali, deluse poi dall’esperienza di chi non riesce a uscire da tale condizione, è buono perché limita il potere contrattuale delle persone, la capacità di aggregarsi e costruire partecipazione, iniziativa politica e sindacale.
La precarizzazione riduce la contribuzione sociale mettendo in crisi il sistema di welfare pubblico, già pesantemente attacco.
La precarizzazione del lavoro è buona perché rende le persone funzionali alla produzione, invertendo il rapporto che invece si dovrebbe praticare trasformando gli esseri umani in pezzi di ricambio utili a gestire le necessità produttive.
La pandemia è stata l’occasione perché esplodesse in maniera conclamata anche la diseguaglianza che attraversa in maniera profonda la nostra società e che riguarda la condizione delle donne.
Se è vero che il capitale si espande sfruttando il lavoro salariato, è necessario ampliare questa analisi, espandendola anche oltre le sole contraddizioni interne alla sfera economica, e riconoscere che il sistema capitalistico trae profitto anche dal lavoro non retribuito, riproduttivo e di cura, svolto essenzialmente dalle donne.
Questo lavoro non solo è disconosciuto, perché non retribuito, ma addirittura chi lo svolge viene relegato in una posizione di subordinazione: la società capitalistica si nutre anche tenendo distinto il lavoro produttivo da quello riproduttivo, evitando di riconoscere e retribuire il secondo.
All’interno di un nucleo familiare, il reddito derivante dal lavoro delle donne è nella maggior parte dei casi un’entrata “accessoria”, che determina uno squilibrio nella coppia e limita la libertà di scelta della donna. Anzi, anche quando il lavoro di cura è riconosciuto e viene retribuito, inevitabilmente diventa un “sotto lavoro”, un lavoro quasi servile, precario e sotto pagato (colf, badanti, pulizie, babysitter come sappiamo bene noi della FILCAMS)
Il gap salariale presente già prima della pandemia, il supplemento del carico di lavoro determinato dalle ripetute sospensioni scolastiche e dalla DAD, l’impossibilità di fare affidamento sui nonni per evitare rischi alla loro fragile salute, hanno portato tante donne a rinunciare al proprio lavoro retribuito, cioè ad una propria realizzazione personale all’esterno delle mura domestiche.
I dati INL ci consegnano uno spaccato della nostra struttura sociale incivile e violento: nei mesi della pandemia, sono cresciute le richieste di convalida di dimissioni delle lavoratrici madri, soprattutto relative a qualifiche molto alte.
Questo significa che le donne spesso sono costrette a lasciare il proprio lavoro salariato e, questo, significa rinunciare alla propria indipendenza, ad un’autonomia economica che garantirebbe loro libertà di scegliere anche, per esempio, se denunciare il proprio partner violento.
È innegabile che la pandemia abbia prodotto una crisi pesante in alcuni comparti del lavoro e della produzione.
Osserviamo i settori della nostra categoria: il turismo è costantemente in difficoltà, con momenti di ripresa insufficienti e non apprezzabili, il commercio si sta orientando sempre di più verso il canale delle vendite on line, la produzione di manufatti subisce le conseguenze della difficoltà di approvvigionamento delle materie prime.
Alcuni settori strategici, come ad esempio l’automotive, stanno vivendo una fase transitoria molto complessa, in cui i la prospettiva che sembrava definita per i prossimi anni non è più così definita e le incertezze per il futuro si riverberano sul presente.
Ma se il capitalismo si nutre di crisi, è in questo periodo di crisi che le trasformazioni avrebbero bisogno di una gestione diversa, con un indirizzo politico opposto a quello indicato.
A volte ci diciamo che la nostra organizzazione, la nostra CGIL, è debole, che non riesce a incidere come vorremmo nel dibattito sociale ed economico che attraversa il paese.
Ma su quali appoggi possiamo contare?
Nella maggioranza di governo e nel parlamento oggi non esiste una sola forza politica che abbia come obiettivo la rappresentanza, reale e non sbandierata, della classe lavoratrice, che sostenga gli interessi del lavoro, e non si limiti a navigare a vista, oppressa da scelte opportunistiche che fatalmente ne limitano l’azione.
In questo vuoto politico la nostra organizzazione, unitamente alla UIL, ha dichiarato lo sciopero generale di dicembre.
E’ stata una scelta giusta, anche se a mio parere tardiva.
Si è perso troppo tempo nella speranza che si potessero mitigare gli effetti legislativi che le scelte dei partiti avrebbero imposto. Bene ha fatto Landini a evocare lo sciopero “politico”, richiamando i partiti al vuoto che hanno lasciato nel rappresentare il mondo del lavoro.
Male ha fatto Landini ad aspettare tatticamente troppo tempo: era evidente già da settimane che il Governo non avrebbe modificato i provvedimenti fiscali e previdenziali nella direzione da noi auspicata.
Era evidente che non si sarebbe messa mano alla legislazione del lavoro e anzi i provvedimenti sui licenziamenti e sugli ammortizzatori sociali dei mesi precedenti sarebbero arrivati a scadenza. Era evidente che uno dei mandati che Draghi voleva portare a termine era avviare una stagione di riforme richieste dagli accordi sulle risorse del PNRR. E da troppi anni oramai che l’Europa, quando assegna risorse economiche aggiuntive ai paesi membri in difficoltà, chiede sacrifici che gravano sempre sulla classe lavoratrice, sulle pensionate e pensionati e sulle fasce deboli della popolazione.
Questa istituzione Europa, invece di essere la realizzazione del “Manifesto di Ventotene” e la concretizzazione del sogno di pace nel nostro continente, troppo frequentemente oppresso dalla guerra, si trasforma in un incubo rigorista, senza prospettiva ne investimento su se stessa e sulle proprie capacità, in cui vince l’idea oppressiva, e non solidale dell’aiuto.
In questo quadro si è anche consumata l’elezione del presidente della Repubblica.
Mattarella è stata una scelta a sorpresa che non ha sorpreso nessuno.
Oramai il nostro paese sembra imperniato su sole due figure, una è Draghi, l’altra Mattarella.
Le difficoltà nel percorso di elezione del presidente sono diventate la scusa per alcuni esponenti di partito, sempre i soliti, per sostenere che la politica ha fallito e che non è possibile lasciare ancora l’elezione del presidente al parlamento e ai partiti, e che, nella società attuale, questa procedura debba essere delegata al voto dei cittadini.
Una forma di presidenzialismo che potrebbe essere il centro della loro idea di riforma costituzionale.
In questa idea non c’è solo la volontà di creare un sistema politico diverso, ma c’è anche il disprezzo della politica, del parlamentarismo.
C’è il seme dell’idea che i tempi della politica e della democrazia sono un orpello inutile, dannoso e sbagliato, che lede i diritti dei cittadini che hanno diritto a un palazzo efficiente, pragmatico che non si perda in chiacchere inutili.
Guardate che questa idea è stata una delle basi che portarono al fascismo, quando la crisi della politica, e del parlamentarismo, condussero alla scelta dell’uomo forte, del capo che si assumeva il ruolo di guida del paese, senza tentennamenti, perdite di tempo e discussioni faticose ed inutili.
La storia non si ripete sempre uguale e i fascismi assumono sempre forme nuove, che come fa un virus con gli organismi che infetta, si adattano alla società per minarla dal suo profondo e prenderne il controllo.
Non dimentichiamo mai che la democrazia si nutre di discussioni, di dialettica, di opposizione delle idee e dei progetti: queste basi sono la difesa dal virus del fascismo.
Se si disprezzano è facile cadere nell’autoritarismo.
E nella confusione sociale, nel disorientamento attuale, quale tentazione migliore che andare verso l'autoritarismo?
Se pensiamo alla pandemia e ciò che è accaduto in questi due anni dobbiamo riflettere molto su questo aspetto. La nostra sede è stata attaccata, in un drammatico giorno di ottobre, dai fascisti. Fu un momento terribile, anche perché quell’atto infame di saccheggio e violenza, guidato dagli esponenti di movimenti come forza nuova o casa pound, vide anche la partecipazione di lavoratori e impiegati, persone normali che nello sbandamento delle idee e della rappresentanza, hanno pensato di affidarsi a quei fascisti, convinti che qualunque istituzione fosse colpevole e il sindacato lo fosse un po’ di più. Uno stravolgimento della realtà che rappresenta bene lo sbandamento con cui dobbiamo confrontarci. In quei giorni le manifestazioni dei no vax, guidate dai fascisti e governate militarmente dalla massa sottoproletaria delle curve calcistiche, erano frequentate anche da persone che nulla avevano da spartire con quei personaggi.
Noi della CGIL siamo sempre stati a favore dell’obbligo vaccinale, sostenitori delle voci scientifiche che ci spiegavano che con la vaccinazione avremmo potuto avviare il percorso di liberazione dal virus. Ma noi eravamo anche coloro che sostenevano che il green pass fosse un intervento parziale e iniquo che esponeva le persone di fronte a scelte personali e responsabilità individuali, che invece dovevano avere un approccio collettivo. Come era possibile assegnare a noi la responsabilità di questo provvedimento?
I fascisti che guidavano quelle proteste avevano scelto come obiettivo l’unico soggetto sociale organizzato che rappresentava e combatteva quelle paure, in una dinamica per cui è proprio colui che si batte per i diritti delle persone che bisogna attaccare.
Perché i fascisti vogliono che le persone restino impaurite e arrabbiate, quindi governabili.
Noi, invece, le vogliamo arrabbiate, ma non rabbiose, le vogliamo convinte e non smarrite, le vogliamo curiose e non indottrinate, le vogliamo combattive e non impaurite.
Di fronte a questo quadro i fascisti, tutti coloro che vogliono un mondo senza dibattito ne opposizione sociale (vera), affrontano la partita con slogan semplici, magari con contenuti e messaggi sbagliati, ma sempre comprensibili.
Invece noi dobbiamo giocare la complessità, studiarla e farla nostra.
Noi dobbiamo lavorare per dare strumenti, offrire orientamento, essere un luogo accogliente che canalizza energie e le trasforma in rivendicazioni sociali.
Per questo, allo sciopero di dicembre dovremmo associare continuità di azione.
Rendere visibili le nostre rivendicazioni e ridare fiato alle nostre piattaforme, per rafforzare il contatto con chi vogliamo rappresentare.
La carta dei diritti, che aggiorna il vecchio, ma sempre fondamentale, statuto dei lavoratori, le piattaforme previdenziali e fiscali, le norme sulla rappresentanza e sulla validità dei contratti nazionali. La lotta alla precarietà.
Una grande vertenza generalizzata per il salario e la contrattazione.
Abbiamo gli strumenti politici per farci ascoltare e comprendere dai lavoratori e dalle persone, spendiamoli riavviando una vera vertenza nel paese.
Io temo molto questa nostra organizzazione quando si perde nelle scelte burocratiche a conservative.
La burocratizzazione della nostra confederazione fa morire la capacità di azione, e se muore questa, nessun partito si sentirà in dovere di ascoltarci, nessuna forza politica e sociale penserà di dover dare delle risposte, nessuna lavoratrice o cittadino ci prenderanno a riferimento politico e sociale.
Forse le nostre sedi resteranno luoghi di aggregazione, che offriranno servizi utili, ma senza lo slancio di un cambio di prospettiva sociale, di riforma della società, che è la sola strada per rafforzarci in futuro.
E in questa ottica, noi dobbiamo avere il coraggio di riprenderci le piazze e colorarle con le nostre bandiere rosse.
Quelle piazze che qualcuno vorrebbe tacitare; nei giorni delle manifestazioni settimanali dei no vax, molte voci si sono alzate per proibire quelle marce e alcuni provvedimenti sono infatti andati in quella direzione.
La nostra avversione per i promotori di quelle proteste non ci ha impedito di preoccuparci.
E oggi che la polizia ha attaccato gli studenti che manifestano per protestare contro la morte sul lavoro di Lorenzo, ci rendiamo conto che quelle preoccupazioni sono concrete e che quasi nessuna voce politica si è alzata per chiedere conto di quanto successo.
A differenza di altri episodi la ministra Lamorgese, pur di fronte a un fatto di gravità inaudita, non ha ricevuto richieste di chiarimento o dichiarazioni di disistima.
E allora noi dobbiamo essere capaci di tornare in quelle piazze, anche al fianco di quegli studenti, di tutti coloro che chiedono conto dei frutti malati che le scelte politiche determinano.
Dobbiamo tornare a occupare le piazze per dire che l’antifascismo non è un valore vecchio o superato, che la CGIL non è antifascista solo il 25 aprile ma lo è ogni giorno, nella sua pratica sindacale e nelle scelte politiche che si fanno quotidianamente.
Dobbiamo tornare a occupare le piazze per essere al fianco di chi manifesta per la difesa dei diritti civili e del loro progresso (il risultato della battaglia parlamentare sul decreto Zan è un macigno su cui è necessario agire, ancora, senza arretramenti).
Dobbiamo occupare le piazze per esprimere l’indignazione contro la condanna di un uomo come Mimmo Lucano, un sindaco buono che ha avuto il solo torto di costruire un modello di accoglienza e integrazione che invertiva i paradigmi della retorica leghista e razzista dell’immigrato invasore e parassita.
Dobbiamo tornare a occupare le piazze per essere al fianco dei ragazzi che difendono il futuro dell’ambiente (le politiche ambientali rappresentano una delle facce dello sfruttamento capitalista ed è una delle battaglie centrali per la sinistra e per il futuro di tutti. Ma di questo parleremo in un approfondimento specifico e qua non mi dilungo).
Dobbiamo tornare a occupare le piazze per dire che le imprese non possono essere libere di spostare la produzione e le proprie sedi a piacimento, abbandonando territori e lavoratrici e lavoratori al loro destino.
Dobbiamo tornare a occupare le piazze per salari giusti, per pensioni giuste, per pari diritti reali e non soltanto fittizi.
Dobbiamo tornare protagonisti del nostro destino e rilanciare un’azione che unisca il mondo del lavoro verso gli obiettivi che il movimento sindacale in questi anni ha saputo elaborare ma non sempre esprimere.
Rilanciando l’azione confederale come vettore per le iniziative delle categorie.
A cominciare dalla nostra, la FILCAMS – CGIL che oggi è la prima categoria dei lavoratori attivi e che rappresenta una fetta enorme del mondo del lavoro e delle sue complessità.
Le sfide che dovremo affrontare nei prossimi anni sono, come sempre, molteplici: tra queste, la complessità dell’evoluzione del commercio, le politiche degli appalti, il futuro del turismo.
I problemi che riguardano il mondo dei servizi e le soluzioni che vogliamo praticare. Soluzioni valide sia per i servizi ad alto valore aggiunto (quelli erogati dal cosiddetto terziario avanzato), sia per quelli a minore valore aggiunto delle imprese fiduciarie, delle pulizie o delle mense.
Servizi a basso valore aggiunto, ma ad altissimo valore sociale, in cui manca però la forza necessaria per contrattare salari e diritti adeguati. Senza entrare in una analisi particolareggiata di ogni singolo contratto della nostra categoria, è necessario tentare di stabilire un piccolo bilancio di questi anni di contrattazione. Senza dare pagelle, mai!
Perché il sindacalista raggiunge i risultati che il contesto gli permette raggiungere e, anche se la qualità del lavoro del singolo fa la differenza, sappiamo bene tutti che successi e insuccessi si alternano nella vita e nella pratica del sindacato e del sindacalista e il solo giudizio che vogliamo dare è quello politico, tenendo presente la situazione su cui si agisce. Ma un bilancio dobbiamo farlo per tentare di guardare avanti e migliorare ciò che possiamo migliorare. Un dato è subito evidente se si analizza la nostra stagione contrattuale: l’enorme fatica che facciamo a rinnovare molti contratti e la grande debolezza contrattuale accentuata dall’alto livello di precarietà e ricatto che caratterizza il settore. Il contratto dei multiservizi rinnovato dopo 8 anni, quello delle farmacie private dopo 9 anni, quello delle farmacie speciali ancora in attesa di rinnovo. Le guardie giurate in attesa anche loro da 7 anni e i contratti principali che riguardano il commercio e il turismo fermi, con il contratto del turismo che congela gli aumenti salariali con la giustificazione delle difficoltà che il settore sta vivendo. (oggi Luciana ci offrirà uno spaccato interessante ed esaustivo della contrattazione della nostra categoria e lascio a lei l’approfondimento del tema).
Guardate non è eccesso di affetto verso la mia, la nostra categoria, che mi fa dire che l’iniziativa non è mancata e le lotte per ottenere contratti adeguati sono state fatte: tutt’altro.
Il tema è diverso. Dobbiamo essere capaci di rilanciare la contrattazione nel suo complesso, per modificare la tendenza all’erosione dei salari in favore dei profitti (anche chiedendo di rivedere i meccanismi contrattuali in essere a partire dalla revisione del parametro IPCA depurato dai costi energetici). Solo in questo modo, l’azione sindacale della nostra categoria potrà rifare il salto qualitativo che le compete.
Salto di qualità che deve anche metterci nelle condizioni di elaborare strategie più coraggiose però su alcuni settori: per esempio dobbiamo reimpossessarci del tema dei servizi in appalto e chiederne l’internalizzazione.
E’ complicato e sono molte le contraddizioni che dovremmo affrontare: ma oggi, con questo regime, non ci sono le complicazioni? Ogni cambio di appalto è un momento di grande fragilità del sistema con la rimessa in discussione dei contratti dei lavoratori occupati. Sui capitolati di appalto siamo in grado di operare un lavoro di controllo e di influenza reali? Nei nostri documenti, abbiamo molto parlato di contrattazione inclusiva, ma le categorie sono in grado di gestire tale idea senza scadere nella concorrenza e nella corsa alla rappresentanza?
Insomma quante variabili sono oggi in gioco quando ragioniamo di appalti. Se poi ascoltiamo gli obiettivi che anche il PNRR recita, concretizzato con il decreto semplificazioni, io penso, forse ingenuamente ma ritengo senza sbagliarmi, che quella semplicità non riguarderà soltanto le grandi opere monitorate con occhio clinico da pubblica opinione e istituzioni. Ne saranno coinvolti anche i nostri appalti con le difficoltà che aumenteranno.
E dovremmo essere in grado, pur con strumenti e capacità contrattuale inferiore, di affrontare il tema dell’internalizzazione dei servizi anche nel settore privato.
Nel settore del terziario la pandemia ha accelerato alcuni processi: nel commercio l’influenza delle vendite on line si avverte sempre con maggiore evidenza e le trasformazioni delle reti commerciali sono una realtà il cui andamento è sempre più difficile da prevedere con grandi preoccupazioni per migliaia di posti di lavoro.
Nel terziario le nuove forme organizzative sono al centro del dibattito e hanno assorbito, per interesse e impulso contrattuale, il tema dell’innovazione tecnologica. Lo slogan “contrattiamo l’algoritmo” non è più sufficiente ad affrontare i temi della contrattazione oggi centrati sullo smart working e sulle sue declinazioni organizzative.
Nella complicazione della modernità io credo che dovremmo essere capaci di affrontare questa discussione, aprendo anche un dibattito culturale di contrapposizione con alcune spinte che arrivano dalle lavoratrici e lavoratori degli uffici.
Pensare di delegare allo smart working la soluzione ai problemi di conciliazione tempi di vita e di lavoro rischia di tramutarsi in una sconfitta epocale che rimetterà in discussione il lavoro femminile, l’orario di lavoro, la professionalità come forma di ricchezza personale e strumento di tutela dalle fluttuazioni del mercato del lavoro, farà cambiare faccia alle città (con influenza diretta sul commercio al dettaglio urbano e dei servizi connessi alle imprese quali mense, pulizie, affari generali, portierato, vigilanza. Tutte attività che riguardano i nostri ambiti negoziali) e determinerà un’ulteriore perdita di posti di lavoro.
Si perderà il valore politico dell’essere lavoratori e la propria percezione di classe.
Per le donne si accentueranno le criticità di cui parlavo in precedenza e saranno relegate ad occupare l’ultimo anello della scala gerarchica, indotte dalla soluzione smart working a cercare forme di lavoro che rimettano al centro del loro agire quotidiano solo ed esclusivamente la cura dei figli e della famiglia.
Guardate, in alcune realtà lavorative si fa strada anche l’idea che il lavoro agile permetta a qualunque lavoratore o lavoratrice di evitare un trasferimento in altra città, diversa dalla propria residenza, per poter lavorare.
Ma questo a costo della crescita professionale e della determinazione del salario.
“South working” è un espressione coniata per descrivere questo fenomeno con particolare riferimento al Sud del nostro paese. E’ una espressione terribile che se tramutata in realtà rischierà di ampliare ulteriormente la forbice tra il nord e il sud d’Italia, tra le aree interne e le grandi aree urbane.
Il grande squilibrio territoriale è un tema che non ho affrontato nella mia relazione ma che deve essere oggetto delle nostre analisi e riflessioni generali sul paese, il suo sistema produttivo, la rete dei servizi, dalla formazione alla sanità, dai trasporti alle infrastrutture tecnologiche, e sulle opzioni e opportunità che i singoli territori offrono ai propri abitanti. Non ho citato alcuni temi che credo saranno parte del dibattito e sui quali dovremo fare un’analisi profonda: la riduzione dell’orario di lavoro, il wellfare aziendale, le trasformazioni tecnologiche che influenzano gli aspetti organizzativi nella grande distribuzione.
Ma la nostra categoria, oltre che ai temi della contrattazione, è chiamata ad operare delle scelte precise sul tema della rappresentanza: nel corso dell’ultima assemblea di organizzazione è stato deciso di delegare al voto dei lavoratori la nomina delle RSA. E’ questa una soluzione che sembra voler ovviare alle difficoltà che viviamo nelle procedure di elezione delle RSU. Il rapporto con FISASCAT e UILTUCS su questo tema è complesso, ma io continuo a pensare che esista un problema anche in casa nostra e aver proposto l’elezione delle RSA appare come una dichiarazione di resa e di rinuncia alla battaglia. L’esperienza di alcuni territori dimostra che non deve essere così per forza e credo che, per una volta, politica e buone prassi potrebbero contaminarsi per davvero.
Nella gestione della contrattazione non è indifferente avere RSA o RSU, e lo sanno bene i delegati che chiedono strumenti formativi e coordinamento per poter crescere nella propria capacità negoziale e di assistenza ai propri colleghi.
In ultima analisi, in questo brevissimo e parziale ragionamento su ciò che riguarda la FILCAMS, voglio dire che la nostra categoria è ricca, di cultura e di spunti, anche contradditori, che potrebbero rappresentare un patrimonio per tutta la nostra organizzazione e per il mondo del lavoro nel suo complesso. Purtroppo non sempre riusciamo a tramutare tutto ciò in una proposta politica organica, coordinata e visibile.
E’ un’incapacità storica che non riusciamo ancora a superare: a noi tutti la sfida di provare a spingere perché ciò accada, senza velleitarismi ma anche senza tatticismi.
Non dimentichiamo infine, nel giudicare i risultati che la nostra categoria ha raggiunto (anche quando cerchiamo di tracciare il bilancio politico), il grande lavoro svolto nel periodo della pandemia. Con il ventre a terra, siamo stati capaci di coprire un enorme quantità di aziende con gli ammortizzatori sociali, offrendo sempre una forma di anticipo del trattamento sociale per non lasciare le persone senza reddito. Abbiamo affrontato le discussioni sui protocolli sanitari di tutela dalla diffusione del virus. E siamo stati capaci di sfruttare anche le nuove tecnologie per raggiungere i lavoratori con videoconferenze, assemblee virtuali che hanno permesso di mantenere il contatto con moltissimi di loro.
Io credo che in tutto questo ci sia anche la grande forza e vitalità che il corpo attivo dell’organizzazione, fatta da delegati, funzionari e strutture politiche offre ancora al paese e ANCORA tanti lavoratori alla nostra organizzazione.
Lavoro e società nella FILCAMS e nella CGIL
Qualche tempo fa, parlando con un compagno di Milano, scambiandoci delle opinioni sulla nostra esperienza nella CGIL e in Lavoro Società, questo mi disse: “Sai Fede, per me lo spazio di Lavoro Società è importante. Mi permette un àmbito di discussione che in CGIL non sempre posso avere”. Quelle parole mi colpirono molto e le cito spesso. Ricordo quando iniziai la mia militanza, come delegato della COOP Lombardia: allora era facile scegliere se aderire ad un’area programmatica di minoranza (allora ci chiamavamo Alternativa Sindacale).
C’era la politica dei redditi, c’era un accordo confederale che aveva segnato in maniera talmente forte la storia sindacale di quegli anni che anche negli slogan che ci venivano proposti era facile orientarsi e scegliere: sono a favore o contro la concertazione?
La realtà era (ed è) molto più complessa, ma nell’immaginario di un militante uno slogan è ciò che colora la sua appartenenza e lo aiuta nella scelta.
Oggi tutto ciò è molto più difficile.
Quando la nostra area fece la scelta maggioritaria, di sostegno alla linea politica confederale era perché condividevamo quella linea, decidendo che era più utile per il movimento dei lavoratori impegnarci nella loro realizzazione, piuttosto che metterle in discussione. Questo non ha permesso di superare differenze e diffidenze all’interno della nostra organizzazione, ma ci ha consentito di incidere nel dibattito con coerenza e onestà intellettuale.
Oggi ci stiamo avvicinando ad un congresso che non sarà banale perché arriva alla fine del primo mandato del Segretario generale Landini: questa scadenza impone un bilancio e una nostra valutazione.
Ne ho parlato in precedenza: lo sciopero generale è stato il culmine di questo periodo ma è stato gestito con eccessivo tatticismo.
La segreteria eletta a Bari aveva promesso passione e iniziativa ed era stata votata sulle ali dell’entusiasmo.
Un po’ di quel patrimonio di consenso è venuto meno ma siamo ancora in tempo per dare fiato alle speranze di quei giorni.
La continuità di azione dopo lo sciopero è il primo passo. Il rilancio delle nostre piattaforme il secondo.
Ma per fare questo è necessaria una volontà politica più forte. Ecco, se noi oggi possiamo offrire un contributo al dibattito e uno slogan ai delegati e ai lavoratori che a noi guardano questa potrebbe esserne la base: diamo continuità a una vertenza generalizzata che rilanci sui temi dell’equità e dei diritti con strumenti riconoscibili e obiettivi chiari.
Noi facciamo politica! Tra i nostri slogan c’è infatti anche la sburocratizzazione dell’organizzazione. Questo è davvero uno slogan, ma se saremo capaci di spiegarne i contenuti potrebbe essere vincente. Sburocratizzare non significa togliere valore al concetto di organizzazione (io sono un burocrate, non posso svilire me stesso) e disprezzare il ruolo di elaborazione e guida della confederazione e delle categorie.
Sburocratizzare a mio parere significa rilanciare gli organismi statutari, evitare di concentrare i meccanismi decisionali nelle sole segreterie generali, non dare vita a una sommatoria di categorie che annullano le articolazioni politiche. Io ritengo che per evitare facili semplificazioni dobbiamo dire che la nostra organizzazione si nutre di pluralismo (quello delle aree e delle aggregazioni programmatiche), si nutre di organismi decisionali statutari (i direttivi e le assemblee generali), vive di pratica e di rappresentanza (elezioni delle RSU, validazioni degli accordi).
Ritorno alla mia esperienza di delegato della COOP.
Ricordo che i militanti di quella che allora era la maggioranza mi dicevano: voi bloccate il dibattito, se non esistessero componenti o aree politiche il dibattito sarebbe libero e le idee circolerebbero più semplicemente.
Io restavo perplesso e l’inesperienza mi faceva dare risposte parziali e poco convincenti. Oggi sentire il nostro Segretario generale dire la stessa cosa mi preoccupa molto. Credo però di poter rispondere con maggiore convinzione di allora: è nel pluralismo delle posizioni che si gioca la democrazia e il dibattito.
In una organizzazione in cui viene riconosciuto il pluralismo delle idee, ai delegati ed alle delegate vengono garantiti àmbiti di protezione per esprimere le proprie idee in maniera libera, perché possono contare su una legittimazione collettiva che favorisce il dibattito, la critica ed il confronto. Dal dibattito, dalla critica e dal confronto nascono le idee, i progetti, l’attivismo, la passione, la motivazione.
Su questo siamo chiamati ad impegnarci, per evitare che l’azione interna della nostra organizzazione si concentri essenzialmente su posizionamenti individuali, anziché sulla elaborazione e la discussione di proposte politiche. Ed è grazie alla trasparente suddivisione in aree programmatiche che si evita di scadere nella personalizzazione dei rapporti. Questa è democrazia, questa è politica: il resto rischia di diventare chiacchera, pettegolezzo o peggio appartenenza nascosta a gruppi di pressione non legittimati e invisibili ai più.
Che danno vita e forza a quell’idea proprietaria dell’organizzazione che dobbiamo combattere con forza.
Ricordiamo anche che i meccanismi statutari che riconoscono le aree programmatiche permettono la distribuzione delle risorse organizzative interne indispensabili ad organizzare iniziative. Noi oggi siamo qua riuniti non perché la FILCAMS-CGIL sia buona e generosa e ci ha voluto fare un regalo, ma perché è leale e corretta verso lo statuto: ricordiamolo quando ascolteremo determinati discorsi sulla democrazia interna all’organizzazione. La nostra aggregazione è un contenitore aperto, che vuole continuare ad essere vivo e rappresentare un punto di riferimento per molti delegati: è necessario però, che voi giovani mettiate la vostra freschezza al servizio della nostra azione politica.
Perché la nostra area dovrà vivere sulle vostre spalle e il rinnovamento dei quadri, il ricambio degli incarichi è la linfa con cui nutrire le gambe su cui camminiamo. Senza il rinnovamento non esiste futuro e senza l’integrazione tra generazioni non potremo continuare ad essere forti e visibili. Senza la spinta a raccogliere il testimone che noi oggi abbiamo tra le mani non assicuriamo un domani a questo splendido contenitore di idee e passioni che è Lavoro Società, che è la CGIL, che è la FILCAMS-CGIL
Questi tre giorni di seminario, per concludere questa mia relazione introduttiva, vogliono essere una bella occasione. Per ritrovarci e abbracciarci dopo tanti mesi, per ascoltare approfondimenti che ci daranno strumenti di comprensione della realtà che ci circonda, per discutere fra di noi ed elaborare idee e consapevolezze. Per tornare a fare militanza attiva e concreta, socializzando fra compagne e compagni, anche di categorie diverse. Sono stati un impegno organizzativo complesso, ma la gioia di vedere tutti voi oggi, ripaga del lavoro fatto. Voglio anche dire che questo seminario, come nella nostra tradizione è dedicato alla memoria di un Compagno o una Compagna cara che ci ha lasciato. Questo è dedicato ad Amedeo Montagna, un compagno bravo! espressione semplice che racchiude l’uomo sorridente e colto che conobbi a Rimini tre anni fa. Le compagne e i compagni della sua regione, la bellissima Puglia di parleranno di lui.
Un abbraccio e grazie per questo vostro impegno fatto di emozione e di ricordo, non semplice da esprimere credo.
Andrea nelle sue relazioni ha sempre detto una frase: dobbiamo essere rossi ed esperti. Esperti nella testa perché studiamo, ci informiamo e restiamo connessi con il mondo e ciò che accade. Rossi dobbiamo esserlo nel cuore però, perché soltanto se sapremo sempre dove il nostro sguardo deve volgersi sapremo rafforzare la nostra idea di militanza, di sindacato e di società.