a cura di Riccardo Chiari
Soltanto il 13% dei comuni italiani rispetta la legge, che in base alle direttive europee chiede entro quest’anno di raggiungere la quota di almeno il 65% di raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani. Sono quelli che produciamo nelle nostre case, e che dovremmo differenziare per quattro generi: carta; vetro; plastiche, alluminio e tetrapak; avanzi organici dei nostri pasti.
Se ai 1.123 comuni in piena regola (dati Legambiente) aggiungiamo gli altri 365 municipi che hanno comunque superato il 60% di differenziata richiesto per il 2011, arriviamo ad avere circa 1.500 comuni in regola con lo Stato italiano e l’Unione europea. Uno su cinque. E gli altri? Sono costretti a chiedere ai cittadini ulteriori soldi per il pagamento della già salata bolletta per lo smaltimento dei rifiuti, a causa della tassa ecologica che le autorità hanno (giustamente) imposto a chi non rispetta le regole. A questa premessa ne va aggiunta un’altra: su spinta tedesca, l’Ue sta andando sempre più nella direzione di far recuperare per legge quanto più materiale possibile dal ciclo dei rifiuti, considerati ormai un’autentica miniera di “materie prime seconde”, più convenienti di quanto non lo sia acquistare le materie prime in giro per il pianeta.
Sui rifiuti l’Europa va avanti, l’Italia resta indietro. Nelle istituzioni, non nella società civile. Sempre più famiglie infatti hanno imparato le regole di base della strategia “rifiuti zero”, in grado con una raccolta differenziata spinta (porta-a-porta) di separare dall’80 al 90% del materiale. Evitando così la proliferazione di inceneritori, e riducendo la quantità di rifiuti da inviare in discarica a una quota addirittura inferiore, e meno pericolosa, delle discariche di ceneri tossiche dei cosiddetti “termovalorizzatori”. La spinta dei movimenti rifiuti-zero è ormai diventata così forte da aver messo in crisi la lobby, trasversale, dell’incenerimento: ad esempio, il successo del candidato “grillino” a Parma è stato reso possibile soprattutto dal no dei cittadini, mobilitati dalla popolarissima associazione Gcr (Gestione corretta rifiuti), all’inceneritore in costruzione nel territorio comunale.
I costi di un impianto, calcolati dai 100 ai 200 milioni di euro per la costruzione, cui vanno aggiunti quelli di una costosa manutenzione per evitare il rilascio di diossine oltre i limiti di legge, sono tali da far chiedere ai movimenti rifiuti-zero di investire quei soldi nella filiera industriale di raccolta, recupero, riciclaggio e riuso dei materiali. Una filiera già fiorente, e in grado di creare posti di lavoro con un rapporto di un addetto ogni mille abitanti. Per rafforzarla, al solito, è necessaria una volontà politica comune. Che ancora manca. Ma la spinta popolare dei movimenti rifiuti-zero, unita alle direttive europee sempre più stringenti, e alle proteste di un numero di cittadini in aumento esponenziale, sta spingendo nell’angolo la pur potente lobby dell’incenerimento.