Dopo di lui il diluvio. Era prevedibile, è successo. L’uscita di scena di Silvio Berlusconi ha provocato un maremoto nella destra italiana. Lo tsunami ha già investito la Lombardia e il Lazio. Ed è solo l’inizio. Le dimissioni di Renata Polverini – le più lunghe e tormentate della storia della Repubblica – sono l’ultimo atto in ordine di tempo del ventennio berlusconiano. Ma per la governatrice laziale che lascia travolta dagli scandali del suo partito, ci sono governatori Pdl che non mollano: Scopelliti in Calabria, Caldoro in Campania, lo stesso Formigoni.
Di Berlusconi si sapeva già tutto, ora vengono a galla le malefatte dei berluschini, una versione – se possibile – ancora più decadente del capo. Feste e festini, cene luculliane, auto di grossa cilindrata, viaggi a cinque stelle e problemi con la legge. Seri. A sei zeri. Così fan tutti, dice chi viene colto in castagna. Così fanno solo loro risponde quel pezzo d’Italia – sempre più esteso – che non arriva a fine mese. L’Italia della cassa integrazione s’indigna, i politici al centro degli scandali reagiscono ciascuno secondo la propria sensibilità. C’è chi si ritira in convento (come ha fatto Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita), chi annuncia che restituirà 400mila euro, come fossero pochi spiccioli (Franco Fiorito, capogruppo regionale del Pdl nel Lazio).
La destra “senza paura” (così si titolava l’ultima edizione della festa nazionale della Giovane Italia) ha paura dei finanzieri. Il loro capo assoluto da molti anni è impegnato in un quasi quotidiano corpo a corpo con la magistratura. I figli hanno seguito le orme del padre. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Anche dei tanti che avevano votato Pdl pensando che Berlusconi fosse re Mida. Lo pensavano i diletti figli del dio Po, i leghisti che pure hanno scoperto di avere i loro scandali in casa. Lo ha pensato per anni anche l’Udc di Casini, almeno fino a tempi tutto sommato recenti. Tasselli di un mosaico assemblato e tenuto insieme da Berlusconi, l’unico che poteva riuscire a mettere fianco a fianco ex-democristiani, ex-socialisti craxiani, ex-missini. Nel segno degli affari facili, disinvolti, quasi sempre a rischio di inchiesta penale o contabile. La cultura della destra italiana è stata ed è questa, dal leghista Belsito al berluscones Fiorito. Ras locali, catalizzatori di preferenze, colonizzatori di poltrone. Tutti nel solco del loro leader, del loro conducator, il Luigi XV di Arcore.
Gianfranco Fini ha lasciato la barca un minuto prima che affondasse, dopo aver ballato sul ponte del Titanic berlusconiano per molti anni. Ora dicono a mezza voce – altrimenti Pierferdinando Casini si arrabbia e li licenzia come Marchionne con gli operai Fiat - di aver trovato un interlocutore affidabile. Matteo Renzi. Menomale che Renzi c’è? Forse. Ma Renzi non c’è ancora, deve affrontare le primarie e superare Pierluigi Bersani. Chi invece è ben saldo in sella è Mario Monti. Il professore della Bocconi ha appena detto che potrebbe restare in campo, aggiungendo naturalmente “solo se ce ne sarà bisogno”. “Ti vogliamo ancora”, hanno risposto subito Fini e Casini, velocissimi ad inventare la lista civica nazionale dei “mille per Monti”. Confindustria e Vaticano hanno già benedetto l’operazione, i veltroniani del Pd si sono apertamente espressi per un “Monti bis”, quel che resta del Pdl non sa che pesci prendere.
C’è così tanta confusione sotto il cielo che perfino le tanto amate (dai democrat) primarie rischiano di perdere il loro carattere simbolico di investitura del futuro presidente del Consiglio, in favore dell’ennesimo richiamo all’uomo della provvidenza, che conosce l’inglese, i meccanismi della finanza internazionale, non fa il bunga bunga e tanto piace a Barack Obama e Angela Merkel. Un addio soft alla democrazia nel nome di quelle compatibilità di bilancio a cui tutto può essere sacrificato. Come sentenzia quasi quotidianamente Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato è stato molto più chiaro di Monti: lui non resterà al Quirinale. Quello che doveva fare l’ha fatto, promuovendo Mario Monti nel ruolo dell’insostituibile primo ministro. Quanta malinconia nel vedere che l’eredità del messaggio garibaldino si sta incarnando nella figura di Monti e nel listone pseudo-civico dei “mille per l’Italia” guidati da Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, entrambi protagonisti di quasi tutti gli ultimi vent’anni del governo della Repubblica. Durante i quali malcostume e malaffare hanno ridotto la politica in polvere. Se la stella di Berlusconi si è spenta, la sua eredità rischia di essere un fardello ancora più pesante per il paese.
Frida Nacinovich