Uscito temporaneamente dal dibattito politico, l’articolo 18 è tornato recentemente al centro della scena mediatica a seguito della sventurata dichiarazione del candidato montiano alla presidenza della Regione Lombardia, Gabriele Albertini, che ne ha parlato come di un retaggio degli anni di piombo. Tale odioso riferimento non merita ulteriori risposte, oltre a quelle che già sono state date in altre sedi, ma dà l’opportunità di tornare a parlare di un argomento che solo apparentemente riguarda i lavoratori “garantiti”.
Niente di più falso.
Già da più parti sono state sviluppate considerazioni di carattere generale circa l’attacco complessivo che i lavoratori stanno subendo in questi anni: dalla destrutturazione del diritto del lavoro operata dai governi Berlusconi, alle riforme del governo Monti che colpiscono pesantemente lavoratori stessi e pensionati.
È sufficiente affermare che, com’è ovvio, la diminuzione complessiva dei salari, dei diritti e delle tutele indebolisce tutti i lavoratori, dipendenti o “finti autonomi” che siano. Che aver ritoccato l’art. 18 ha significato non solo toglierlo a chi lo ha avuto fino ad oggi (i “garantiti”, appunto), ma chiudere definitivamente la porta in faccia a decine di migliaia di precari.
In questi anni l’articolo 18 è infatti stato usato più e più volte anche come arma di contrasto alla precarietà: uno strumento a disposizione del sindacato (e del giudice) per ripristinare i diritti negati al lavoratore attraverso l’uso improprio di contratti “atipici”.
Nella lotta contro il ricorso a forme improprie di lavoro atipico usato come sostituzione di lavoro dipendente, il sindacato ha infatti spesso utilizzato l’azione giurisdizionale, impugnando la legittimità stessa dei contratti precari; ottenendo così da un lato la trasformazione dei rapporti di lavoro, e dall’altro – attraverso la contestazione del licenziamento – la successiva reintegra nell’azienda.
Difatti, una volta che un contratto di lavoro autonomo sia stato giudicato falso, esso viene convertito in un contratto di natura dipendente a tempo indeterminato, e la scadenza viene considerata alla stregua del licenziamento. È a questo punto che interveniva l’articolo 18 a imporre la reintegra: senza addentrarsi nei meccanismi giuridici, l’estromissione del lavoratore viene considerata alla stregua di un licenziamento illegittimo.
Ad esempio, in una sentenza di una causa di riconoscimento della subordinazione il giudice dichiara “l’illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente”, e ordina “alla società convenuta di reintegrare la ricorrente nel proprio posto di lavoro”, condannando peraltro l’azienda anche “al risarcimento del danno, in misura pari alle retribuzioni maturate e maturande dal dì del licenziamento fino alla reintegra, oltre alla rivalutazione Istat ed agli interessi legali dalle singole scadenze al soddisfo, oltre ai versamento all’lnps dei contributi previdenziali di legge”.
Un meccanismo analogo è stato innescato anche rispetto a un illecito contratto in somministrazione. In una sentenza dello scorso 14 marzo, il Tribunale di Bergamo ha dato ragione a due lavoratrici che per anni avevano prestato servizio in un McDonald’s come interinali. “Nel caso in esame – recita la sentenza – l’indicazione delle ragioni imprenditoriali del primo contratto di lavoro somministrato, (‘motivi di carattere produttivo – incrementi di lavoro non programmabili’, per lo svolgimento di attività di ‘addetto servizi di ristorazione’) risulta del tutto generica (…) Accertata la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, l’irregolarità della somministrazione (…) è costituito un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
Pertanto, oltre al pagamento degli stipendi arretrati, il Tribunale ha ordinato che la lavoratrice fosse riammessa al suo posto.
Negli ultimi 20 anni si sono progressivamente sommati provvedimenti e norme che hanno spezzettato il mondo del lavoro e reso più difficile per i lavoratori tutelarsi dentro e fuori il rapporto di lavoro. Fino alla riforma Fornero: si è reso ancora più difficile far valere i propri diritti non solo per i lavoratori assunti a tempo indeterminato, ma anche per i precari. Ciò sia perché restano inalterate le norme vessatorie del collegato lavoro, sia perché a quelle si somma la cancellazione dell’articolo 18.
In questi anni il sindacato, anche attraverso l’azione giurisdizionale, ha contribuito a produrre avanzamenti della giurisprudenza utili alla tutela dei lavoratori (esemplare il caso dell’associazione in partecipazione, unica forma contrattuale realmente abrogata dalla riforma) e utili soprattutto al rafforzamento della forza negoziale del sindacato stesso nelle trattative. I numerosi casi di percorsi di stabilizzazione avviati anche durante i governi di destra dimostrano che non soltanto si dovrebbe, ma che è stato concretamente possibile rappresentare, organizzare e difendere i precari.
La reintegra non è quindi uno strumento che garantisce pochi dipendenti a discapito dei tanti precari. Nemmeno in questo caso è sostenibile la stantia retorica della contrapposizione fra padri e figli, fra garantiti e non garantiti: l’articolo 18 è un patrimonio di tutti. E da tutti va difeso. E ripristinato per come era.