Autogrill e i diritti (ancora) violati - di Matteo Gaddi

Il 20 aprile 2012, a seguito della programmata chiusura di una unità produttiva nel milanese, Autogrill aveva licenziato 7 dipendenti che operavano nella mensa di via Caboto a Corsico sostenendo di non avere la possibilità di ricollocazione. Questo licenziamento era stato deciso mentre Autogrill continuava ad assumere sul territorio milanese personale a tempo determinato.
In quel periodo l’azienda assumeva mediamente 131 contratti a tempo determinato ogni mese in provincia di Milano (dati forniti ai sensi dei diritti di informazione nel gennaio 2013) oltre a svolgere oltre 140 mila ore di straordinario e supplementare nel periodo gennaio-novembre 2012.
E’ evidente, quindi, che non si trattava di un licenziamento dovuto ad esuberi di personale: dietro ci stava dell’altro.
Guarda caso i dipendenti licenziati erano sei lavoratrici madri (una delle quali, al momento del licenziamento, ancora in periodo di tutela per maternità) e un lavoratore con ridotte capacità lavorative.
Queste persone non si sono perse d’animo e dopo essersi presentate (indicando nome, età e carichi familiari) hanno scritto a Benetton in qualità di Presidente di Autogrill per segnalare che l’azienda che si vanta di applicare codici etici e i principi della responsabilità sociale di impresa aveva provveduto al loro licenziamento nonostante avessero dichiarato per iscritto la loro disponibilità a essere ricollocate in altre unita produttiva nella provincia di Milano, indicando anche i locali nei quali potevano essere utilmente ricollocate. In quel periodo Autogrill aveva raggiunto accordi con le organizzazioni sindacali trovando soluzioni e ricollocazioni lavorative per altri lavoratori (Brescia, Roma, Milano via Bisceglie) che rischiavano di trovarsi in situazioni analoghe a quelle dei sette licenziati.
Lecito domandarsi, quindi, se nella decisione del licenziamento avessero pesato le loro condizioni di salute e familiari.
La Filcams-Cgil è intervenuta a sostegno delle lavoratrici licenziate, interessando della vicenda anche le Consigliere di Pari Opportunità della  provincia di Milano e della Regione Lombardia; l’impressione era che Autogrill avesse voluto licenziare chi non poteva essere flessibile al 100%: le 6 lavoratrici madri perché dovevano conciliare il lavoro con la gestione propria famiglia e il lavoratore con ridotte capacità lavorative per le limitazioni a svolgere alcuni tipi di prestazioni; una vera e propria azione discriminatoria.
Fortunatamente il Tribunale di Milano con sentenza del novembre 2012 ha riconosciuto il diritto di queste persone alla riammissione in servizio, avvenuta poi con lettera di Autogrill stessa.
Ma Autogrill, pur dando attuazione alla sentenza, non si rassegna e prosegue imperterrita per indurre al licenziamento le sette persone: pur essendoci posti di lavoro abbastanza facilmente raggiungibili, l’azienda colloca i lavoratori nei posti più disagevoli, difficili da raggiungere con i mezzi pubblici a meno da impiegare due/tre ore. La Filcams chiede di spostarle dove ci sono posti vacanti, ma l’azienda oppone un netto rifiuto. Addirittura viene chiesto di effettuare uno spostamento all’interno delle destinazioni indicate dall’azienda, ma anche in questo caso viene opposto un netto rifiuto.
A questo punto l’ostinazione di Autogrill si spiega in un solo modo: non vuole cedere al diritto che queste 7 persone si sono viste riconoscere da un Tribunale e intende costringere le lavoratrici (che sono a part time, sulle quali, quindi, il tempo di viaggio influisce non poco se rapportato al ridotto orario di lavoro) che hanno da conciliare il lavoro e la gestione della famiglia a dimettersi.
Autogrill raggiunge in parte il suo obiettivo: 4 lavoratrici, ormai esasperate, rinunciano al lavoro; una quinta lavoratrice è stata licenziata di nuovo ed è in causa con l’azienda, le altre tre stanno lavorando ma Autogrill ha impugnato la decisione del giudice di riammissione in servizio.  Questo caso è emblematico: ancora oggi un’azienda come Autogrill, che esibisce le certificazioni della responsabilità sociale, calpesta i problemi legati alla conciliazione dei tempi di lavoro di donne, madri e lavoratrici. Ma si tratta di una pratica messa in campo dalle aziende in questo momento di crisi; pratica che il sindacato risconta sempre più diffusamente.
Infatti proprio in questi giorni una lavoratrice di una catena del bricolage sta subendo dall’azienda il tentativo di indurla alle dimissioni con un’operazione subdola che utilizza un certificato del medico competente che la dichiara inidonea in maniera permanente all’attività amministrativa e, al tempo stesso, ne viene disposto il trasferimento a 60 km di distanza a svolgere mansioni di cassiera: in questo caso si utilizza persino la presunta tutela della salute dei lavoratori per espellere il personale...


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