Sarebbe utile riprendere il filo della discussione in merito alle nuove finalità cui indirizzare la contrattazione collettiva. Si tratta di recuperare un lasso di tempo ormai piuttosto lungo durante il quale noi da un lato abbiamo contrastato l’ingresso nei ccnl delle tipologie con maggiore precarietà intrinseca (staff leasing, lavoro a chiamata) e, dall’altro, abbiamo tentato di contrattare la disciplina delle altre “riducendo il danno”. Dobbiamo dirci che oggi questi criteri non sono più sufficienti: sia perché infranti in alcuni casi (le intese su staff leasing sono ormai svariate), sia perché la dinamica del lavoro a chiamata è esplosa fino a farlo diventare la terza tipologia nei flussi di assunzione. Da ultimo, la legge 92/12 (legge Fornero) ha liberalizzato la prima assunzione a termine svincolandola da causali: è chiaro come questo renda l’ingresso al lavoro una condizione di assoluta precarietà del lavoratore, che tutto farà in quel tempo salvo difendere i suoi diritti o rivolgersi al delegato, impedendo così a quest’ultimo e al sindacato di categoria la sua storica funzione.
Questa è dunque la situazione nella quale la Cgil lancia la parola d’ordine dei contratti inclusivi, per ricomporre per via contrattuale ciò che la legge e il mercato hanno diviso. E qui si pone il tema del rapporto con le forme non subordinate.
Partiamo da due casi recenti: Ifoa e Isola Verde. Agenzia formativa la prima, catena di erboristerie aperte nei centri commerciali la seconda. Comune a entrambe la copiosa presenza di lavoratori “autonomi”, co.co.pro a Ifoa, associati in partecipazione a Isola Verde. Entrambi gli accordi, firmati da Nidil e Filcams, pervengono al passaggio dei rapporti autonomi fittizi a lavoro dipendente, facendo ricorso al contratto di solidarietà espansiva (articolo 2 legge 863/84) per diluirne il costo, e prevedono maggiori tutele e diritti, da definirsi per via pattizia, per i rapporti genuinamente autonomi (le collaborazioni in pluricommittenza in Ifoa).
A me sembra che questa sia la via da percorrere contrattualmente, perché anziché affidarsi a un fumoso e scivoloso concetto, quale “il volersi continuare a sentire precario, ma con più diritti”, si basa sull’esercizio concreto dell’analisi dell’organizzazione del lavoro e sulla conseguente disamina delle forme d’impiego delle persone, e da questo fa discendere da un lato la lotta agli abusi (passaggio alla subordinazione) e, dall’altro, prevede il rafforzamento per effetto della contrattazione dei diritti di chi è genuinamente autonomo. Sarebbe il caso che la Cgil indicasse queste due come esperienze guida da estendere e praticare quale modello per contratti “inclusivi”. Ma c’è un altro problema: come pensare a ccnl inclusivi? È giusto dire che il ccnl debba prevedere le tutele anche per chi non è dipendente. Tuttavia continuo a pensare che resterebbe un rischio: se il ccnl riguarda entrambe le tipologie d’impiego, dipendente e autonomo, senza porre alcun discrimine, potremmo aver con ciò ammesso la sostanziale indifferenza nel ricorso alle forme d’impiego, tanto più perché comunque provviste di tutele approntate proprio dal ccnl “inclusivo”.
Io penso si debba evitare questo rischio, ribadendo i criteri che da sempre la dottrina e la giurisprudenza hanno indicato: non coincidenza dell’oggetto della prestazione autonoma con l’oggetto sociale dell’impresa, esclusione delle mansioni di contenuto esecutivo e ripetitivo, impossibilità di compresenza, sulla stessa attività, di lavoratori dipendenti e autonomi. Il che significa che la copertura del ccnl nei confronti della prestazione svolta in autonomia è sacrosanta, ma ciò deve poi calarsi, quanto ad applicabilità, nella concreta dimensione del luogo di lavoro per la verifica della genuinità del ricorso a quella fattispecie.