Molti ricordano che il Governo Monti esordì all’insegna della parola “equità” rassicurando gli italiani sul fatto che le liberalizzazioni contenute nel decreto “Salva Italia” lo avrebbero dimostrato… puntuale arrivò la reazione furibonda di farmacisti, taxisti, distributori di carburante e di qualche ordine professionale; reazioni che costrinsero il governo ad una clamorosa retromarcia. Per cui di questa “equità” ci è rimasto l’articolo 31 del decreto, che liberalizza totalmente gli orari di apertura al pubblico degli esercizi commerciali esautorando comuni e regioni dalla facoltà di programmazione in materia.
Il suddetto articolo, provvedimento di “debutto” del secondo governo tecnico della Repubblica italiana, è stampato a fuoco nella memoria delle lavoratrici e dei lavoratori del commercio perché, con poche righe, ha peggiorato le loro condizioni di vita e di lavoro.
Il decreto ha dato la possibilità agli esercizi commerciali di aprire tutti i giorni della settimana senza limite di orario; in conseguenza di ciò da gennaio 2012 tutte le aziende della Grande Distribuzione Organizzata e molte del medio e piccolo commercio sono aperte tutte le domeniche e i festivi.
Dopo un anno e mezzo di liberalizzazione possiamo dire che tutte le nostre preoccupazioni si sono rivelate fondate, anzi, spesso superate in peggio dalla realtà: spesso analizziamo gli aspetti negativi diretti, che sono numerosi e penalizzanti per le lavoratrici e i lavoratori del commercio, ma oltre a questi, che da soli ci fanno ribadire con forza la necessità di cambiare la norma del decreto “Salva Italia”, ci sono pesantissimi effetti indiretti.
Molte delle attività che si svolgono all’interno di un centro commerciale, per effetto delle aperture 7 giorni su 7, hanno comportato un ulteriore appesantimento dei carichi di lavoro: a molti lavoratori che svolgono servizi di pulizie, di vigilanza o di manutenzione è stato imposto il lavoro domenicale e festivo.
La totale deregulation stabilita con questo decreto ha rappresentato un regalo alla grande distribuzione, un danno per le piccole e medie realtà del commercio e un ulteriore colpo ai lavoratori del settore che sono stati costretti a regimi di orario ancora più penalizzanti perché le aziende hanno totalmente scaricato sul costo del lavoro le aperture domenicali. Il provvedimento non ha fatto crescere l’economia perché per rilanciare i consumi bisognava intervenire sul reddito dei consumatori incrementando salari e pensioni e non sugli orari dei negozi. La verità lapalissiana sul crollo dei consumi consiste nel fatto che i cittadini non spendono perché non hanno soldi; dopodiché possiamo fare tutte le analisi sociali ed economiche del caso, sapendo però che la realtà rimane questa.
Non si contano le chiusure di piccole attività commerciali perché non più in grado di reggere la concorrenza, come non si contano le procedure di cassa integrazione o di licenziamento. Nello stesso tempo registriamo un ulteriore impoverimento del tessuto sociale: in molti quartieri e paesi i cosiddetti negozi di vicinato svolgevano un’importante funzione di coesione sociale oltre all’opportunità di offrire un esercizio commerciale raggiungibile anche da chi era sprovvisto di mezzi di trasporto propri. Da molte parti, in Italia, la desertificazione del piccolo commercio di vicinato si misura col numero di serrande abbassate e con i cartelli di “cedesi attività”: molte piccole realtà del commercio hanno dovuto chiudere perché non più in grado di reggere la concorrenza con le grandi catene mentre altre si sono affidate al lavoro irregolare o precario. Così come abbiamo constatato una maggiore superficialità nell’applicazione delle misure a tutela della sicurezza sul lavoro.