Terra bene comune di Riccardo Chiari

“La terra ai contadini”. Era la parola d’ordine delle lotte bracciantili nella prima metà del secolo scorso. Rivendicavano la riforma fondiaria, che dopo anni di manifestazioni - e di repressioni sanguinose - sarebbe finalmente arrivata. Anche se in sostanza furono disattese quasi tutte le richieste di allargare la proprietà delle terre a chi le voleva coltivare, strappandole al latifondo. Da allora siamo andati di male in peggio. Oggi in buona parte del pianeta il “land grabbing”, l’accaparramento di terre, ha assunto proporzioni gigantesche. E la sovranità alimentare, cioè il diritto dei popoli a un cibo naturale, prodotto con metodi sostenibili ed ecologici secondo sistemi agricoli affinati nei secoli, è continuamente violata o messa a rischio. In India come in America Latina, in Africa come in Europa. Ma non senza reazioni: ormai ovunque ci sono comunità, contadini e movimenti sociali che si sono attivati, per difendere la terra e i suoi frutti.
Alla lotta ormai storica contro gli organismi geneticamente modificati prodotti dalle multinazionali, in difesa della biodiversità e della libertà delle sementi, anche in Italia in questi anni si è affiancata una mobilitazione popolare cresciuta stagione dopo stagione. Per il diritto alla terra e alla sua coltivazione non intensiva, secondo gli insegnamenti di un agricoltura contadina che salvaguarda il suo secolare patrimonio agroalimentare. Rispettando l’ambiente e gli equilibri sociali che sono stati raggiunti, generazione dopo generazione, in ogni comunità. Un movimento legato a filo doppio a quello dei Gruppi di acquisto solidale. Quei Gas che non perseguono solo la filiera corta (l’ormai celebre “chilometro zero”), ma si rivolgono ai produttori secondo precisi criteri di rispetto ambientale, etico-sociale, e di genuinità degli alimenti base e dei mangimi impiegati nelle coltivazioni e negli allevamenti.
Dal Veneto alla Toscana, dal Piemonte all’Umbria, dalla Puglia alla Campania, ormai si contano a centinaia le comunità e le realtà di base attive su questi temi. In collegamento fra loro e pronte a unirsi in associazioni chiamate di volta in volta “terra/Terra”, “Re:Common”, “A Sud”. Nei giorni scorsi in Val di Susa c’è stata l’assemblea di Genuino Clandestino, rete nazionale di resistenza “per la libera lavorazione dei prodotti contadini”. E nei tre giorni di incontri e di festa è stata rilanciata la campagna “Terra Bene Comune”, che è una motivata rivendicazione del diritto all’accesso alla terra, e a gestirla come comunità. “Contro la tendenza attuale – osservano i promotori - che va concentrando sempre più terre in poche mani, e si accinge a svendere ai privati il demanio agricolo sottraendolo alle coltivazioni”.
Nel manifesto della campagna si fotografa nitidamente quanto sta accadendo: “Dal 2008 il processo di accaparramento di terre da parte di multinazionali, governi, nuovi attori finanziari pubblici e privati ha subito una forte accelerazione a causa della convergenza tra crisi finanziaria, alimentare, energetica e climatica (...) Le ragioni per cui la terra viene presa sono le più svariate: per coltivare cibo o agro-combustibili su scala industriale, per far spazio all’industria mineraria, per piantare foreste, per costruire dighe o altre infrastrutture (…) Le economie rurali locali vengono compromesse, il tessuto socio-culturale e la stessa identità di un territorio sono messe a repentaglio, così come l’agricoltura contadina e la relativa produzione per la sussistenza”. Dal globale al locale: “In Italia questo processo, già da tempo in atto con la concentrazione della terra in grandi proprietà, le speculazioni edilizie e la cementificazione selvaggia, la realizzazione di infrastrutture e grandi opere di dubbia utilità, sta avendo un’ulteriore accelerazione con l’articolo 66 del decreto Salva Italia, che prevede, tra le altre cose, l’alienazione dei terreni agricoli demaniali in nome di un presunto contributo alla riduzione del debito pubblico, la cui legittimità è ancora tutta da verificare”.
Alla legge del governo Monti che mette in vendita le terre pubbliche, approvata dall’ormai codificata maggioranza Pdl-Pd-Sc, la campagna “Terra Bene Comune” oppone l’elementare osservazione che i beni demaniali rurali, in particolare quelli abbandonati e incolti, possono essere affidati senza alcun costo ai tanti giovani (e non) che vogliono sperimentare modelli diversi di vita e di economia. Di qui la proposta di promuovere progetti di “neo-ruralità”, con concessioni di lunga durata (minimo 20 anni) per diffondere queste nuove forme di agricoltura contadina. Con uno stretto rapporto fra le comunità locali e i nuovi insediamenti. Da poter auto-costruire con materiali naturali (dal legno alla paglia), in modo da avere fabbricati a bassissimo impatto ambientale, completamente degradabili, e vincolati senza limiti di tempo all’attività agricola.


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