Lavoro a chiamata: un no di merito, non ideologico... - di Fulvio Rubino

Il “lavoro a chiamata”, ovvero il “lavoro intermittente”, trova sempre maggiore applicazione nel mercato del lavoro italiano in particolar modo nei settori del turismo -pubblici esercizi e commercio.
Questa tipologia di lavoro è stata introdotta dal decreto legislativo 276 del 2003, più conosciuto come “Legge Biagi” (artt.33-40), successivamente cancellato dalla Legge 247del 2007 e nuovamente reintrodotto attraverso il comma 11 dell’art. 39 della Legge 133 del 2008.
Il “Job on call” è un contratto di lavoro subordinato con cui il lavoratore si mette a disposizione di un datore di lavoro per svolgere prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, “secondo esigenze” individuate dalla contrattazione collettiva.
Inoltre, il contratto a chiamata, che non può essere utilizzato dalla Pubblica Amministrazione, può essere concluso non soltanto per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo, per le quali, a causa dell’impossibilità o difficoltà di predeterminane i periodi, non sia possibile il ricorso al contratto di lavoro a tempo parziale (vedasi anche il D.M. del Ministero del Lavoro del 23.10.2004 che ha previsto, in via provvisoria, che il contratto intermittente si possa applicare alle 46 attività “discontinue” elencate nel Regio Decreto n. 2657/1923), ma anche per periodi temporalmente predeterminati (per l’esatta identificazione di tali periodi si deve far riferimento alla circolare 5/2005 del Ministero del Lavoro); per prestazioni rese da soggetti in stato di disoccupazione con meno di 25 anni di età ovvero con lavoratori con più di 45 anni, anche pensionati. Così tale contratto può essere concluso.
Esistono due forme di contratto a chiamata.
Il lavoro a chiamata con obbligo di corrispondere una indennità di disponibilità al lavoratore (da sempre meno utilizzata dalle aziende perché onerosa) è un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive, col quale una parte, il lavoratore, si obbliga a restare a disposizione del datore di lavoro ed a garantire la sua prestazione lavorativa in caso di chiamata, mentre l’altra, il datore di lavoro, si obbliga ad assumere e dunque retribuire il dipendente, o in alternativa, a corrispodergli, per tutto il periodo di durata dell’obbligazione, una indennità mensile di disponibilità che deve risultare dal contratto individuale sottoscritto dalle parti (è conseguenza che il lavoratore, avendo assicurato la disponibilità alla chiamata, non può, senza valido motivo, rifiutare di fornire la prestazione di lavoro pena la risoluzione del contratto o, secondo alcuni contratti collettivi, l’azione disciplinare nonché la perdita dell’indennità ed il risarcimento del danno eventualmente arrecato al datore di lavoro);
Il lavoro a chiamata senza obbligo di corrispondere una indennità di disponibilità quando il lavoratore non è vincolato alla chiamata del datore di lavoro (la mancanza di vincoli in capo al datore di lavoro è la conseguenza del fatto che anche il lavoratore, rispettivamente, non assume alcun obbligo giuridico al momento della sottoscrizione tanto che, nel caso di chiamata, quest’ultimo sarà libero di accettarla o meno senza dover dare alcuna giustificazione e senza incorrere in alcuna sanzione o risarcimento dei danni); questo tipo di contratto è una anomalia all’interno del nostro ordinamento giuridico in quanto l’assunzione degli obblighi reciproci delle parti, tipici del contratto di lavoro subordinato, risulta sottoposta ad una duplice condizione sospensiva potestativa, che fa dipendere gli effetti del contratto da una successiva ed eventuale manifestazione di volontà del datore di lavoro (se vorrò ti chiamerò...) seguita dalla (sempre eventuale) accettazione del prestatore di lavoro (se vorrò risponderò alla chiamata..).
Il contratto di lavoro intermittente senza indennità di disponibilità, così come disegnato dal legislatore, si presta a “coprire” il lavoro irregolare: benché con la sola sottoscrizione contrattuale non sorga alcun obbligo, né retributivo né contributivo, comunque il datore di lavoro dovrebbe procedere alla comunicazione preventiva dell’assunzione senza l’indicazione dei giorni in cui si effettuerà la prestazione ovvero della sua durata oraria.
Le problematicità sorgono con i datori di lavoro disonesti, i quali, una volta effettuata una tantum la comunicazione, possono omettere, del tutto o parzialmente, di registrare e conseguentemente denunciare all’Inps le giornate effettivamente lavorate con l’intenzione di evadere i relativi contributi.
Tale possibilità è incentivata dal fatto che, in caso di controllo da parte dell’ispettorato del lavoro:
se si accertano le effettive giornate lavorate ma non è ancora scaduto il termine per la denuncia delle retribuzioni all’Inps, di fatto non ci sarà alcuna sanzione; se si accertano le giornate lavorate “in nero” per periodi per i quali sono già scaduti gli obblighi contributivi, non si potrebbe comunque applicare la sanzione contro il lavoro sommerso, la “maxisanzione” (art. 3, comma 3, D.L. 12/2002 conv. nella Legge 73/2002, come modificato dall’art. 4 della legge 183/2010) perché l’applicazione di tale sanzione presuppone necessariamente l’omissione della comunicazione preventiva dell’instaurazione del rapporto di lavoro.
Si aggiunga che al lavoratore irregolare, il quale volesse ottenere giudizialmente il riconoscimento delle sue spettanze economiche e previdenziali relative al rapporto di lavoro intermittente, non basterebbe la prova della sussistenza del contratto di lavoro e della sua disponibilità a prestare l’attività a favore della controparte, ma dovrebbe dimostrare ogni singola prestazione “a chiamata”, in quanto dalla semplice stipulazione del contratto non deriverebbe alcun diritto alla retribuzione.


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