A un popolo di non-lettori di giornali come quello italiano, il nome di Jp Morgan dirà poco o nulla. Eppure si tratta di una delle più importanti banche d’affari del pianeta. Quelle “dieci sorelle” che nell’epoca del finanzcapitalismo hanno in mano il destino di interi continenti, potendo muovere masse monetarie (vere o virtuali che siano) di incommensurabile grandezza, superiori allo stesso pil mondiale. Le stesse che, in parallelo all’ormai sedimentata crisi di sovrapproduzione iniziata negli anni ‘70, hanno portato alla devastante crisi finanziaria partita nel 2008. Ancora lontana dall’essersi esaurita nei suoi effetti sul mondo reale.
In un suo report del 28 maggio scorso, Jp Morgan ha negato ogni responsabilità della crisi. Non è stato il finanzcapitalismo senza controllo a provocarla. Piuttosto le cause sono da individuare nei sistemi politici, in particolare in alcune Carte fondamentali delle nazioni. Quelle che ad esempio tutelano costituzionalmente i diritti dei lavoratori. Oppure assicurano il diritto alla protesta, quando le decisioni dei governanti non sono apprezzate dai governati. Non è fantascienza apocalittica, è tutto messo nero su bianco.
Bisogna ringraziare il costituzionalista Claudio De Flores, per aver segnalato in tempo utile che il cuore del problema non è una “semplice” offensiva contro la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza al nazifascismo. C’è molto di più, è una offensiva contro il costituzionalismo democratico. Dopo aver introdotto nella Carta - con il “governo tecnico” di Mario Monti – sia il pareggio di bilancio che il fiscal compact, ora si vuole andare ancora oltre. Accusando di “risposta conservatrice” chi, come Stefano Rodotà, non mette in discussione il principio di una manutenzione costituzionale, quanto il non voler più seguire il cammino previsto dalla stessa Costituzione.