Negli ultimi tre decenni, le vicende economiche e sociali hanno fornito insegnamenti che non possono essere elusi. La particolare instabilità dei sistemi finanziari da cui dipendono le prestazioni dei fondi pensione privati a capitalizzazione e i costi di gestione strutturalmente minori dei sistemi pensionistici pubblici a ripartizione confermano la necessità di arrestare la tendenza alla privatizzazione dei sistemi pensionistici.
E’ arrivato dunque il momento di ristabilire il fatto che per motivi sia di equità sociale che di convenienza economica, al sistema pensionistico pubblico spetta il compito di garantire una copertura sufficiente a tutti i lavoratori che abbiano maturato un’adeguata presenza nel mercato del lavoro. I fondi pensione privati possono invece fornire una copertura facoltativa e aggiuntiva (non sostitutiva) a chi è in grado di effettuare risparmi ulteriori a fini previdenziali. La gestione delle risorse finanziarie dei Fondi pensione privati dovrebbe comunque essere incentivata a favorire lo sviluppo del Paese.
Tuttavia, l’assetto attuale del sistema pensionistico pubblico non gli consente di svolgere le funzioni economiche e sociali che gli spettano.
Mentre la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico pubblico è stata messa in sicurezza già da circa 15 anni, rendendolo addirittura la riserva finanziaria del bilancio statale (il saldo tra le entrate contributive e le spese pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali è positivo dal 1998 e nell’ultimo anno è stato di 24 miliardi di euro), sta maturando una vera e propria bomba sociale costituita dalla impossibilità di offrire una copertura pensionistica adeguata alla generalità dei lavoratori.
Per rimuovere gli ostacoli esistenti è necessario che nel metodo di calcolo contributivo vadano inseriti alcuni meccanismi solidaristici, pur nel rispetto degli equilibri finanziari e della trasparente distinzione tra componenti previdenziali e assistenziali.
D’altra parte, per eliminare le redistribuzioni inique che invece lo caratterizzano, i coefficienti di trasformazione utilizzati per il calcolo delle prestazioni vanno differenziati in rapporto alle diverse aspettative di vita connesse alle condizioni sociali e di lavoro.
Occorre tener conto della situazione sempre più diffusa di quanti hanno già avuto e avranno una contribuzione insufficiente a maturare una pensione adeguata. Nel calcolo della pensione, la storia contributiva da considerare dovrebbe includere anche i periodi di disoccupazione involontaria e rivalutare i contributi versati nei periodi di vigenza di aliquote inferiori a quelle attuali.
La mancata o parziale indicizzazione delle pensioni all’inflazione non può più essere, come invece sta avvenendo, lo strumento di tagli indiscriminati e regressivi ai redditi da pensione.
Va affrontato e risolto strutturalmente il problema dei lavoratori cosiddetti esodati che, a seguito dell’improvviso e consistente aumento dell’età di pensionamento, non hanno e/o non avranno per diversi anni né un reddito da lavoro né una pensione. A tal fine occorre rivedere le modalità che regolano l’età pensionabile di riferimento, differenziandola in base all’usura delle mansioni svolte nella vita lavorativa e reintrodurre la flessibilità di scelta senza ulteriori penalizzazioni oltre quanto già insito nel sistema di calcolo contributivo. Si devono rispettare gli accordi di pensionamento anticipato già contrattati tra lavoratori, imprese e Pubblica Amministrazione. Va corretto anche il rigido automatismo dell’aumento dell’età di pensionamento legato alla speranza di vita.
Per quanto riguarda i fondi pensione, la loro gestione deve essere improntata: a privilegiare la sicurezza e la stabilità delle prestazioni, ad evitare ogni conflitto d’interesse a danno degli iscritti e, compatibilmente con questi obiettivi prioritari, a contribuire alla crescita e allo sviluppo del Paese.
A quest’ultimo riguardo va tenuto presente che tutti i fondi pensione della previdenza complementare attualmente gestiscono un patrimonio di 113 miliardi di euro, che è costantemente in crescita, ma circa il 70% è allocato all’estero. Sarebbe auspicabile che una parte maggiore delle risorse da essi gestite rimanesse nel nostro paese e contribuisse a migliorare le sue strutture produttive e sociali. A tal fine, sindacati, imprese e stato potrebbero concordare nuove possibilità d’investimento dei fondi costituite da attività creditizie pensate ad hoc verso la Pubblica amministrazione da cui derivare rendimenti più stabili e sicuri. I capitali così avviati verso la Pubblica amministrazione dovrebbero avere una destinazione condivisa volta a potenziare e rinnovare le infrastrutture sociali e produttive del nostro sistema economico la cui arretratezza è all’origine del nostro «declino» anche culturale e civile.
Dunque, Stato lavoratori e imprese, collaborerebbero nella definizione di un Piano di sviluppo economico e sociale del Paese nonché di ampliamento della democrazia economica istituzionale, utilizzando risparmio previdenziale raccolto dai fondi pensione che comunque beneficerebbero di rendimenti più certi.
La domanda aggiuntiva e qualificata alimentata dagli investimenti operati mediante questo Piano darebbe un valido contributo all’attività delle nostre imprese, all’occupazione e alla qualità, quantità e stabilità della crescita.