La precarietà “a tempo indeterminato” e la difficoltà d’incontro per il sindacato confederale (1)
[Maria G. Meriggi è ordinario di Storia contemporanea all’Università di Bergamo. E’ studiosa, osservatrice e attenta partecipe delle vicende del movimento operaio italiano e internazionale, anche coevo. Ospitiamo una sua riflessione sul rapporto tra il “nuovo” proletariato della precarietà e il movimento operaio organizzato che prende a pretesto le polemiche nate dopo il 1 maggio milanese e la vicenda expo. I titoli sono redazionali e sacrificano in parte la ricchezza delle argomentazioni.
Ci auguriamo che questa riflessione segni soltanto l’inizio di una collaborazione a cui terremmo molto, ndr]
La giornata del 1 maggio di quest’anno a Milano è stata funestata da gravi episodi ma gli aspetti più gravi non sono quelli segnalati dalla grande stampa. Gli incidenti del pomeriggio – su cui tornerò – non sono che l’aspetto clamoroso di un problema ben più grave e sostanziale che l’Expo ha solo messo in luce. Questo problema è la difficoltà di comunicazione, la profonda differenze di attese e di stile del conflitto fra il sindacalismo confederale – la Cgil innanzitutto – e i giovani precari del lavoro a chiamata e dei contratti a termine che caratterizzano il lavoro all’Expo.
Non ritengo che il futuro della lotta di classe – per usare una formula classica – stia nel ‘no Expo’ e nemmeno che qualsiasi opera urbana debba essere preferibile al verde o insidiata dalla corruzione. Tuttavia è impossibile suggerire analogie fra l’Expo attuale e quelle della metà Ottocento. Da incontri a Londra nell’estate 1862 fra operai francesi e inglesi durante l’Esposizione universale nascono discussioni e rapporti che produrranno in seguito, due anni dopo, la prima riunione sempre a Londra della I Internazionale. Ma allora – nel pieno del capitalismo liberale – e in seguito nell’età del taylorismo, i lavoratori condividevano col mondo imprenditoriale l’ottimismo verso lo sviluppo: crescita della ricchezza e la razionalizzazione della produzione avrebbero formato la base concreta per il potere dei lavoratori associati sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza. Progressismo e socialismo si coniugavano nel movimento operaio in una specie di “marxismo spontaneo”. Oggi è impossibile riproporre un simile processo per l’Expo che si presenta come un evento in sé – spettacolare e commerciale – più che come la vetrina dell’economia reale.
Una parte della sinistra ha esasperato questo atteggiamento critico (Expo=corruzione e saccheggio del territorio) mentre un’altra (la Camera del Lavoro di Milano) ha colto in essa l’occasione per un rilancio di Milano, senza grandi illusioni ma convinta che comunque si debbano seguire i lavoratori nelle loro vicende. E’ qui che evidentemente qualcosa non funziona.
La presenza di volontari nell’area Expo – un errore, a mio parere, trattandosi di un luogo di produzione di profitto e non di un luogo di cura – ha diffuso nel mondo dei precari non organizzati o che si riconoscono vagamente nella galassia dei centri sociali e del sindacalismo di base il sospetto che all’Expo si imponesse comunque lavoro volontario gratuito. Non è facile per la Filcams che è la protagonista della vicenda spiegare innanzitutto a questi lavoratori che di volta in volta si potevano rivolgere alla CdL per problemi come quelli dei contratti Manpower o del divieto di accesso ad alcuni di essi imposto dalla Questura, problema che è naturalmente finito nelle mani della Cgil milanese.
Si tratta della malafede della grande stampa pronta a criminalizzare i manifestanti del pomeriggio ma anche a non dare ascolto e a ritenere irrilevanti a quelli del mattino: ma non solo.
La difficoltà dei lavoratori intermittenti a riconoscersi nelle forme di rappresentanza del sindacalismo confederale messa drammaticamente in luce da queste vicende è un fatto ormai di lungo periodo che non deve smettere di interrogarci.