Gli USA sono un paese cruciale, il cuore e la mente della economia capitalista. Alle volte ai nostri occhi appaiono come un blocco omogeneo, tranne quando le contraddizioni esplodono in modo violento e repentino come per la questione razziale, o quando i mass media si concentrano sulle primarie o le elezioni presidenziali. O quando annunciano l’ennesimo intervento militare.
Gli Stati Uniti sono anche un paese nel quale il movimento sindacale continua ad avere una forza imponente, ma è frammentato, spesso corporativo, più volte colpito nella sua storia e che ha dovuto fare i conti per primo con un gigantesco processo di precarizzazione del lavoro e di smantellamento di tutele e con un processo migratorio dal sud dell’America verso il Nord e con una persistente discriminazione verso la popolazione afroamericana.
A partire da Occupy Wall Street, e prima ancora dal movimento di Seattle, gli Stati Uniti hanno visto un ritorno in campo di un punto di vista critico contro il liberismo e la globalizzazione. Questa lotta ha trovato nella candidatura di Bernie Sanders alle primarie democratiche una prima sponda politica.
Anche il sindacato si pone il problema di uno sbocco politico, come dimostra la partecipazione attiva delle Unions alle primarie americane a sostegno o della Clinton o di Sanders, ma prima ancora si pone il problema di fondo: la capacità di organizzare e rappresentare i lavoratori, anche la massa precaria e pauperizzata.
[Su “reds” abbiamo già dato notizia del movimento per il salario minimo negli Stati Uniti d’America. Pubblicammo un articolo di un sindacalista statunitense (nel n.7 del 2014). Ci torniamo oggi].