Museo dell’Automobile di Torino: storie quotidiane di appalto
Il Museo dell’Automobile nasce nel 1932 su iniziativa di Cesare Goria Gatti e Roberto Biscaretti di Ruffia (primo Presidente dell’Automobile Club di Torino e tra i fondatori della Fiat), e figura tra i più antichi musei dell’automobile del mondo.
Alla vigilia di Expo ’61, l’Esposizione internazionale del Lavoro, che si tiene a Torino nel 100simo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, trova la sua definitiva sede sulla sponda sinistra del Po a poca distanza dal Lingotto.
Ma il Museo non decolla. Finalmente, nel 2001, il Comune di Torino, nel quadro delle celebrazioni per il 150simo dell’Italia unita, entra nel Consiglio di Amministrazione affiancandosi a Regione, Provincia, ACI e FIAT e delibera il rinnovamento della sede museale; nel 2005 si chiude il bando di gara e nel 2011 il Museo riapre i battenti. L’inaugurazione in pompa magna, vede la presenza del Presidente della Repubblica Napolitano e il padrinato “morale” (sic!) di Vittorio Emanuele di Savoia.
Questo è l’unico Museo Nazionale del genere in Italia. Il Museo vanta una delle collezioni più rare ed interessanti nel suo genere, quasi 200 automobili originali, dalla metà dell’800 ai giorni nostri, di oltre ottanta marche diverse, provenienti dall’Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Spagna, Polonia e Stati Uniti. All’esposizione museale si aggiungono il Centro di Documentazione un’area mostre temporanee, uno spazio eventi, un centro congressi, il centro didattico, il bookshop e la caffetteria-ristorante.
Cassa, accoglienza e presidio delle sale espositive sono affidati in appalto. La vetrina brillante nasconde, come sempre in Italia, una realtà meno lucente. Gli addetti alla sorveglianza delle sale devono camminare in continuazione senza potersi fermare in numero di due per piano, con una modalità che viene chiamata, non scherzo!, “essere di giostra”.
Per vincere gli appalti si gioca al ribasso, e dove servirebbero per esempio dieci operatori se ne mettono cinque e poi si spera nella buona stella, o nel bisogno dei lavoratori che piegano il collo alle ore supplementari.
Le condizioni di lavoro sono di conseguenza: arbitrio e pressioni di ogni genere in un lavoro che visto da fuori sembra di tutto riposo…
Il primo bando che metteva a concorso i servizi, in sostanza più che ore contrattuali qui si tratta di copertura di postazioni in rapporto agli orari di apertura del Museo, era il perfetto esempio di come non si fa un bando del genere.
Ovviamente non conteneva la “clausola sociale”, l’elemento di salvaguardia del personale e della professionalità maturata, che consente ai lavoratori presenti da un certo tempo in un determinato appalto, di essere assunti dalla ditta subentrante, a parità di condizioni; era lacunoso nelle modalità di organizzazione del lavoro. Una cura particolare era stata posta nell’inserire una serie di regole comportamentali, una sorta di regolamento aziendale, degno di un padrone delle ferriere.
I lavoratori si sono rivolti al sindacato, costretto ad agire di rimessa, perché solo la contrattazione preventiva è l’unico modo di prevenire il conflitto imponendo il rispetto delle regole.
I vertici aziendali, nonostante la presenza della controparte pubblica, sono rimasti sordi alle nostre proposte e alla fine in corso d’opera sono state costrette a ritirare il bando, perché nel frattempo Regione Piemonte e Comune di Torino hanno firmato un accordo con CGIL-CISL-UIL territoriali che regolamenta il settore degli appalti di beni e servizi inerenti le due istituzione a livello territoriale in contrasto con il bando museale. Naturalmente il nuovo bando è ancora orfano della clausola sociale: evidentemente in collina a nessuno importa che si rischi di lasciare in mezzo alla strada degli incolpevoli lavoratori o che li si impoverisca ancora di più.
Al momento i prodi amministratori sono nella fase di analisi delle offerte: speriamo che gli echi delle passate e delle presenti lotte arrivino alle loro auliche orecchie e li inducano a più miti consigli, anche perché non finisce qui di certo.