Il Rojava, Raqqa e la scelta degli internazionalisti - di Sergio Sinigaglia

Karim Franceschi, il compagno del centro sociale Arvultura di Senigallia, andato a combattere a Kobane due anni fa per sostenere la resistenza del Rojava, è tornato a metà ottobre dopo essere stato di nuovo al fronte per un anno nella battaglia di Raqqa. Questa volta è rimasto anche gravemente ferito. Ora sta bene. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare questa nuova durissima esperienza e anche ascoltare le sue valutazioni dopo i recenti importanti avvenimento nell’area.


Raccontaci della battaglia di Raqqa e gli attori politici in campo durante questi undici mesi.
C’è stato un grande investimento politico del Rojava su Raqqa, investimento umano, di risorse economiche e anche di tempo se pensiamo che la guerra civile siriana è ormai in corso da cinque anni e la battaglia per liberare Raqqa è durata undici mesi. Questo conflitto siriano non è paragonabile ai conflitti storici che conosciamo, penso alla seconda guerra mondiale. E’ un tipo di guerra non convenzionale dove per esempio città come Aleppo prima di cadere nelle mani di Assad, ha resistito anni.

Raqqa è stata un’eccezione: sono stati conquistati 80 mila kmq nel giro di otto mesi. E’ stata un’avanzata fulminea. Per riprendere la capitale dell’Isis si è formata la coalizione “Forze democratiche siriane” a guida YPG, cioè le Unità di Protezione del Popolo e Unità di Protezione delle Donne. Questa forza si è inserita in uno schieramento che comprendeva ottantamila unità. Ma questo ampio fronte ha dovuto fare i conti con la Turchia che ha cercato con tutte le forze di distruggere lo schieramento L’obiettivo di Erdogan era porsi come unico soggetto che avrebbe liberato Raqqa. Gli americani non sono allineati politicamente con l’YPG e non sostengono il progetto rivoluzionario del confederalismo democratico. Come l’Europa hanno forti interessi economici con la Turchia. Quindi ad un certo punto è stata messa in discussione la coalizione e le stesse Unità di Protezione. Le forze turche hanno invaso i territori del Nord, hanno attaccato l’YPG, hanno utilizzato forze ribelli da Aleppo, comprate con tanti soldi, portate al confine del Rojava. E tra questi gruppi c’erano gli Al Ziki. Si tratta di una formazione fondamentalista che nell’estate del 2016 è stata al centro dell’attenzione mondiale, anche se poi lo si è scordato in fretta, perché alcuni di questi jihadisti hanno tagliato la testa a un bambino di nove anni, filmato questo orrore ridendo, mostrando il tutto “come finiscono le spie di Assad”. Un bambino di nove anni... Il video lo hanno postato loro stessi, ha fatto il giro del mondo. E noi quando in precedenza con la brigata internazionale che avevo formato, siamo andati a difendere il Rojava, ci siamo trovati di fronte proprio Al Ziki. Quindi la Turchia ci ha spinti indietro fino a Manbij, città che avevamo liberato prima di arrivare a Raqqa con un bagno di sangue enorme, visto che lì la resistenza che abbiamo trovato è paragonabile a quella incontrata per liberare Raqqa. Una località che non eravamo disposti ad abbandonare all’invasore di turno perché incentrata su una esperienza molto avanzata di augoverno, con protagonisti gli stessi abitanti; dopo tutte le promesse di autogoverno fatte non potevamo tradirli. Quindi ci siamo messi a difesa di Manbij e gli americani hanno detto ai turchi: si sono ritirati, se volete andare a Al Mab (distretto siriano che fa parte del Governatorato di Aleppo, ndr) avete via libera. Questa era una pugnalata alle spalle data agli americani all’YPG perché significava che il cantone di Afrin a nord di Aleppo sarebbe stato completamente separato dal resto del Rojava, visto che uno dei nostri obiettivi era liberare Al Mab e connettere i due cantoni ancora separati, cioè Afrin e Kobane. La Turchia così ha tentato di liberare Al Mab e dopo tre mesi di combattimenti selvaggi, non è riuscita nemmeno ad entrarvi, nonostante un ampio dispiegamento di forze militari e il sostegno anche dei Russi con droni e caccia. Alla fine hanno trovato l’accordo con l’Isis che si è ritirata dalla città. Che io sappia è stata una intesa basata su armi, promesse di salvacondotti per far uscire militanti Isis dal confine turco. Erdogan ha venduto la cosa come una grande vittoria, ma americani e il resto della coalizione internazionale non erano convinti, per cui la Turchia è stata messa da parte ed è iniziata la campagna di liberazione di Raqqa. Però sarebbe servito più tempo per questa offensiva, perché la componente araba della coalizione è arrivata con le gambe rotte alle porte della città, provata dalla liberazione della campagna, durante la quale hanno avuto grande perdite. Sarebbe servito più tempo per ricostituire un esercito valido. Ma non è stato possibile a causa della pressione della Turchia che voleva rientrare in gioco e cercava di comprare con ingenti somme di denaro le unità arabe all’interno di questa coalizione, per favorire la defezione nei confronti dello YPG e avere anche informazioni importanti. Questo gioco sporco la Turchia lo ha fatto continuamente. Ho visto con i miei occhi email mandate a determinati comandanti arabi che ce le facevano vedere proprio per evitare fraintendimenti.

La liberazione di Raqqa sarebbe dovuta essere un riconoscimento politico da parte dell’Occidente nei confronti del Rojava. Anche perché un anno prima in occasione della liberazione di Manbij il Rojava era stato accusato di pulizia etnica contro gli arabi e di essere nazionalista. Con la liberazione di Raqqa queste accuse si sono dimostrate infondate perché la maggior parte dei combattenti erano proprio arabi, e membri delle Unità di Protezione del Popolo. A riprova che quella della Siria Confederale del Nord è una rivoluzione multiculturale e multiconfessionale dove curdi, arabi, yazidi, turkmeni combattono spalla a spalla.

Cosa significa per l’Isis la perdita di Raqqa e che ricadute può avere nell’ambito della lotta contro lo Stato Islamico?
L’Isis ha perso la sua capitale, la prima grande città, ancora più importante di Mosul. Ciò non significa un annientamento totale, che non ci potrà mai essere. La ragione è semplice: tra coloro che aderiscano all’Isis ci sono tanti che non sono combattenti. Dobbiamo tenere presente che a creare l’Isis sono state condizioni oggettive, cioè situazioni di oppressione, che i sunniti hanno vissuto e vivono. L’Isis 30 anni fa non esisteva. E non esisteva neanche una ideologia paragonabile a quella dello Stato Islamico. Bisogna trovare il modo di rimuovere le condizioni che hanno portato alla sua nascita, disinnescare i conflitti multietnici e multireligiosi che sono alla base dell’odio che genera l’Isis. La Siria federale del Nord si propone come modello alternativo che si riappropria delle risorse che sono state tolte alla popolazione, come il petrolio. Se per i militanti jihadisti gli sciiti sono i nemici a vita perché oppressori, invece a Kobane c’è il mio vicino sciita con cui vado insieme all’assemblea popolare, i nostri figli giocano insieme e a livello di governo contiamo tutti e due. In questo contesto il meccanismo di consenso nei confronti dell’Isis non funziona più. Certamente si tratta di un processo lungo.

Altri eventi rilevanti sono stati il referendum voluto da Barzani e la perdita di Kirkuk da parte dei peshmerga...

Innanzitutto bisogna distinguere tra peshmerga e le Unità di Protezione del Popolo. I peshmerga sono nazionalisti, non sopportano gli arabi, con loro non ce n’è uno. E hanno fatto pulizia etnica avanzando nei territori dove si sono insediati. Con delle giustificazioni storiche visto che quegli arabi erano stato inseriti da Saddam. Ma, attenzione, anche in Siria molti villaggi arabi erano prima curdi e questi non si sono messi a fare distinzioni visto che ormai gli insediamenti c’erano da tempo.

Per quanto riguarda Barzani c’è da ricordare che ha fatto arrestare gli “internazionalisti” che tentavano di entrare in Rojava o che tentavano di uscire, mettendoli in carcere un mese, un mese e mezzo. Non è mai stato un alleato del movimento democratico della Siria del Nord perché non è stato mai d’accordo con il progetto politico e culturale che gli stava dietro.
E poi tutti si sono dimenticati di una cosa importante, ma non gli arabi, non il governo di Abadi, non i turkmeni, non gli yazidi. Quando l’Isis ha conquistato Raqqa e si è mossa in direzione di Mosul i peshmerga erano insieme all’esercito iracheno a difendere quei confini e i peshmerga si sono fatti da parte e hanno guardato l’Isis massacrare l’esercito iracheno. Ma non lo hanno fatto a chilometri di distanza. Lo hanno fatto stando dall’altra parte della strada. E ci sono video su youtube con posti di blocco dell’Isis a distanza di posti di blocco dei peshmerga che si salutano, anche perché i peshmerga sono sunniti. Si parla anche di un accordo tra le parti per lasciare Kirkuk ai peshmerga, città ricca di petrolio, e questi avrebbero lasciato Sinjar all’Isis. Sinjar è una piccola città che collega Mosul a Raqqa, quindi una via di collegamento importante. Ma qui c’è una numerosa comunità yazidi che pratica lo zoroastrismo, considerato dall’Isis come uno dei mali assoluti, visto che come è noto sono monoteisti e odiano il politeismo. La conseguenza è stata una macelleria con eccidi, schiavizzazione dei yazidi e quant’altro. Tutto con il beneplacito dei peshmerga.

Il referendum è stato fatto anche in queste zone, compresa Kirkuk, fondamentale per uno stato curdo in Iraq. Ma essendo il principale centro petrolifero anche per gli iracheni, Bagdad se l’è ripresa. La verità è che i peshmerga non hanno una grande forza militare. Dall’altra parte le milizie sciite sono invece di tutt’altra pasta. Quando sono entrate a Mosul non si è potuto filmare nulla perché si sono lasciate andare a pura macelleria. Quando sono arrivati a Kirkuk io ero all’aeroporto di Bagdad perché stavo per prendere il volo per il ritorno. Ad un certo punto ho visto arrivare cinquanta bestioni di contactors, assoldati dalle compagnie petrolifere, che se la stavano dando a gambe. In teoria dovevano sostenere i peshmerga, ma sono scappati. Kirkuk, che è una grossa città, è caduta in un giorno. Ciò significa che c’è sta una fuga generale.

E’ stata la rovina di Barzani. Bisogna considerare che il KRG (il Governo regionale del Kurdistan ndr) è diviso in due fazioni politiche. Una fa riferimento a Barzani l’altra a Talabani, morto recentemente, che è il PUK (Unità Patriottica del Kurdistan) più propensa ad un dialogo con il governo iracheno. Poco interessata allo scontro frontale e in questo momento al progetto di indipendenza. Soprattutto è in conflitto con Barzani perché il suo mandato nel governo regionale è scaduto, e prolungato illegalmente. In sostanza Barzani ha già superato due volte il suo termine e quindi continua a rimanere in carica con un atteggiamento dispotico. C’è una disunione totale tra le due fazioni: il PUK era contrario al referendum, perché temevano quello che è poi accaduto. Barzani ha spedito una sessantina di diplomatici per il mondo e sono tornati con promesse di riconoscimento dell’indipendenza che poi c’è stata, ma senza alcun riconoscimento. Con la perdita di Kirkuk si sono poi resi conto del grave errore commesso. E si sono giocati i territori che avevano conquistato in questi cinque anni di guerra civile. Persa Kirkuk svanisce ogni sogno di indipendenza, visto che senza gli introiti petroliferi non è possibile pagare i peshmerga. Ora non so che farà Barzani. La cosa più logica sarebbero le dimissioni, ma dubito che lo farà.

Raccontaci della tua Brigata. Qualcuno ha accusato gli “internazionali” andati combattere di essersi schierati con gli americani...
La composizione della Brigata all’inizio era soprattutto anarchica, la provenienza italiana e basca. Io, il comandante del gruppo, ero l’unico comunista. All’inizio in totale eravamo otto. Poi con il tempo è cresciuta numericamente fino ad arrivare ad una trentina di persone e decisamente più multiculturale. A prevalere non era un preciso orientamento ideologico, all’infuori della condivisione del progetto della rivoluzione socialista e libertaria del Rojava, anche da parte di chi non era socialista, ma combattevano per un ideale concreto di socialismo.

Per quanto riguarda l’accusa di stare con gli americani, penso al nostro battaglione, all’ispirazione che abbiamo avuto nel costruirlo. Almeno per me il modello era della colonna Durruti durante la guerra civile spagnola. La questione è mal posta. A differenza di quello che è successo in Italia con l’emarginazione dei comunisti dopo la Resistenza, in Rojava la fazione socialista è la più forte e crea contenitori dove mettere le altre componenti per intercettare gli aiuti americani. Ma gli Usa durante la campagna allo YPG non hanno dato un proiettile. A Raqqa ero un comandante di 200 combattenti. Quando sono rimasto ferito gravemente si sono rifiutati di portarmi con l’aereo con cui trasportano di solito i feriti più a rischio, attraverso il confine siriano in Iraq per prestare le cure urgenti, visto che il solo aereo che vola è americano. E questo perché ero YPG.
Inoltre gli Usa ricevono costantemente pressioni dalla Turchia per evitare qualunque sostegno alle Unità perché hanno il timore che il progetto si possa estendere. L’YPG vuole portare progetti di autogoverno in tutta la Siria e il Medioriente.

Bisogna smettere di leggere la geopolitica come si faceva nel Novecento, perché poi ci ridono dietro. Non si può parlare di Putin come fosse un “compagno”. Stessa cosa per Assad.
E infine c’è sempre da ricordare che ci sono stati compagni che sono andati li a combattere per un ideale in un contesto spesso terribile dove tutti noi ci siamo trovati, mettendo a repentaglio la nostra vita e alcuni sono morti. 


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