Materiali del seminario nazionale di Lavoro Società
“La dimensione sociale della globalizzazione riguarda posti di lavoro, salute e istruzione, ma va ben oltre. È la dimensione della globalizzazione che le persone sperimentano nella vita quotidiana e nel lavoro: la totalità delle loro aspirazioni alla partecipazione democratica e alla prosperità materiale. Una migliore globalizzazione è la chiave per una vita migliore e sicura per le persone di tutto il mondo nel XXI secolo”. Era il 2004 quando l’Organizzazione internazionale del Lavoro pubblicava queste sue raccomandazioni e, se qualcuno le avesse raccolte, probabilmente saremmo in condizioni diverse.
“Sfruttare la globalizzazione” è invece il titolo di un documento della Commissione europea su una “valutazione basata su prove oggettive di ciò che la globalizzazione significhi per l’Europa e gli europei”. Ma davvero non possiamo arginare la moltiplicazione di trattati multilaterali (Organizzazione mondiale del commercio), plurilaterali (come il TISA sulla liberalizzazione dei servizi), o bilaterali (come il CETA tra Europa e Canada e il TTIP con gli Stati Uniti) pena l’approfondirsi della crisi?
Il commercio negli anni Settanta era responsabile di meno del 20% del Pil globale, mentre oggi ne produce circa la metà. La qualità ambientale, sociale, il reddito e i diritti assicurati da questa riorganizzazione dei mercati sulle esigenze di filiere sempre più frattali “made in the world” è sotto accusa. Se, infatti, le dimensioni della disuguaglianza in Europa sembrano meno marcate che altrove, l’1% più ricco della nostra popolazione detiene ben il 27% della ricchezza di tutti.
Nel 2016, per di più, il commercio mondiale di merci ha registrato la sua crescita più bassa in volume rispetto alla crisi finanziaria del 2008, registrando un misero +1,3 per cento. Siamo alla metà del livello raggiunto nel 2015. Anche se il 2017 è cominciato con un maggiore sprint negli scambi, il mercato globale resta strutturalmente bloccato. Consumatori impoveriti comprano poche merci povere e i pochi soggetti industriali che, concentrati nei soliti Paesi, sopravvivono alla competizione, in ciascun settore, non bastano per sostenere la crescita in tutto il pianeta. Nel Report statistico 2017, infatti, l’Organizzazione spiega che “i primi dieci esportatori rappresentano più della metà del commercio mondiale”. Le economie in via di sviluppo stanno aumentando la loro partecipazione: la loro quota del commercio mondiale di merci è salita al 41 per cento mentre per i servizi commerciali al 36 per cento. Tuttavia la quota dei paesi meno sviluppati nelle esportazioni di merci e servizi commerciali nel mondo è ancora troppo bassa per poter parlare davvero di mercato globale: siamo a meno dell’1%. Per di più cala il valore globale delle merci del 3,3% per cui le esportazioni valgono nel 2016 15,46 trilioni di dollari, poco di più dell’anno precedente. Regge l’export dell’Europa, (-0,3%) perché il 63% delle sue esportazioni resta essenzialmente all’interno del mercato comune. Altro che globalizzazione.
Se, dunque, accordi commerciali di ultima generazione come il CETA tra Europa e Canada non possono invertire questa tendenza abbattendo dazi e dogane tra due soli Paesi, e anzi rischiano di ridurre le opportunità di export per i nostri produttori nel mercato attualmente più capiente, cioè quello europeo, a che cosa servono? I maggiori benefici per gli attori commerciali delle due parti si aspettano non tanto dall’azzeramento di oltre il 90% delle barriere tariffarie, rispetto al cui impatto il nostro Governo non ha realizzato (o quantomeno pubblicato) alcuna valutazione prima che dazi e dogane andassero giù a metà del settembre scorso. Già oggi, infatti, protagonisti dell’export italiano che credevano di guadagnare molto con il trattato rivedono le proprie posizioni definendolo “deludente”. Sono, in realtà, le barriere non tariffarie, e dunque il complesso sistema di standard, regole di produzione, di protezione della qualità e dell’ambiente, che andrebbero ad essere progressivamente “semplificate” col CETA, con l’unico criterio cogente della facilitazione commerciale, in modo permanente in più di una decina di Commissioni apposite create dal trattato. In pratica, se rispettare una regola costa troppo, un’impresa potrà metterla in discussione in una commissione tecnica transatlantica senza che i nostri organismi regolatori, le parti sociali, il Parlamento, possano fare nulla. Perché in quelle commissioni tecniche, che lavorano con il principio del segreto commerciale e i cui lavori non sono pubblici, le normative nazionali e europee si debbono piegare alla facilità commerciale e il Principio di precauzione, che pure i trattati europei tutelano, salta. Il CETA, inoltre, include l’Investment Court System (ICS): un sistema di risoluzione delle controversie sugli investimenti che permette alle imprese di citare in giudizio gli Stati e l’UE dinnanzi a una corte arbitrale, senza dover rispettare le regole nazionali ma solo la lettera del trattato, costringendoli a dimostrare che non ci sia nessun ragionevole dubbio che una legge, regola, decisione presa e in vigore sia valida. Se il dubbio c’è, e lo Stato vorrà tenersi la scelta che democraticamente ha preso, se non riuscirà ad avere il 100% delle ragioni dalla propria, dovrà compensare l’investitore in contanti per i danni dubiti. Per questo oltre 2mila Comuni, 19 Regioni oltre 300 associazioni, sindacati, tra cui la Cgil e le sue categorie, e piccole e medie imprese con presidi, lettere ai parlamentari e azioni online, in tutta Italia si stanno battendo per bloccare la ratifica del CETA.
Vogliamo creare un caso in Europa, arrivare alle elezioni politiche senza che il CETA venga approvato, fare di questa globalizzazione che non funziona un argomento di campagna elettorale, e riaprire, in vista del rinnovo del parlamento europeo nel 2019, la discussione a Bruxelles su come governarla meglio a vantaggio di tutti. Non è ancora troppo tardi per costringere o decisori politici a seguire quei vecchi consigli dell’ILO del 2004: insieme possiamo e dobbiamo ottenerlo.