Abbiamo intervistato Mauro Alboresi, segretario del PCI, partito che ha raccolto il nome e la storia dei comunisti italiani per iniziare un nuovo percorso
Viviamo in un momento di crisi profonda della politica anche a sinistra. I lavoratori sono disincantati e disillusi, anche nel quadro attivo sindacale. E diffidano.
La crisi della sinistra è oggettiva. Sulle ragioni se ne discute da tempo. Dopo la caduta del Muro e il proporsi del capitalismo come trionfante, si è assistito ad uno snaturamento progressivo, in tanta parte del mondo, segnatamente in Europa ed in Italia. La sinistra è stata sempre più permeata dal punto di vista “altro”, dalla cultura liberista imperante; ha finito con l’assumere la logica della neutralità dei problemi, delle compatibilità, e quindi della obbligatorietà delle scelte, delle riforme condivise (emblematico l’approdo ai cosiddetti governi tecnici, alle grandi coalizioni, etc.). La sua crisi è insieme causa ed effetto dell’affermarsi di questo capitalismo, che registra la sua affermazione più importante nel senso comune, di massa, circa la vita, improntata al pensiero unico. Ciò spiega il progressivo allontanamento della sinistra dalla sua ragion d’essere, ossia dalla rappresentanza del lavoro, dalla sua tutela e valorizzazione, e la caduta del suo appeal. E’ un processo che ha investito anche tanta parte del mondo sindacale, mettendone in crisi rappresentanza e rappresentatività. Che i lavoratori, a fronte del conseguente precipitare della loro condizione materiale, esprimano disincanto, diffidenza, e purtroppo per tanta parte rassegnazione, è quindi comprensibile, largamente motivato. La sinistra deve ritornare ad essere tale, riconnettersi con il mondo del lavoro, ridare voce e speranza alle sue istanze.
La CGIL propone l’estensione erga omnes dei contratti per legge, altri sono per il salario minimo di legge.
Si assiste da tempo al tentativo di svuotare di senso, ruolo, funzione, il CCNL. Il quadro legislativo e normativo affermatosi dice tanto al riguardo. Questo è potuto accadere anche con la disponibilità di tanta parte del mondo sindacale, propensa ad intervenire più sugli effetti dei processi che sulle cause. L’obbiettivo più o meno dichiarato delle imprese è quello di un rapporto diretto, non mediato, con il lavoratore, un rapporto giocoforza iniquo, ed il CCNL rappresenta un ostacolo. Deve invece ritornare a svolgere la funzione che gli è propria; è pienamente condivisibile la sottolineatura circa il valore erga omnes da attribuirgli.
Non ci convince la proposta che da più parti viene avanzata, anche sulla base di esperienze vigenti in altri paesi, di un salario minimo per legge. Il rischio è quello di un allineamento al ribasso delle condizioni date, di una ulteriore messa in discussione dello stesso CCNL.
Sei stato da operaio e formatore sindacale e da dirigente della Funzione Pubblica e confederale di Bologna e dell’Emilia un militante e dirigente della CGIL. Quale è l’opinione del Partito sulla Carta dei diritti della CGIL?
Guardiamo con grande attenzione alla proposta di legge della CGIL per garantire diritti al mondo del lavoro nelle sue molteplici articolazioni. Si tratta di una proposta importante, ancorché con qualche limite (penso, ad esempio, all’insufficienza di quanto attiene al mondo cooperativo, in particolare al trattamento riferito alla figura del socio lavoratore). Auspichiamo che nella prossima legislatura essa venga posta all’attenzione dell’aula e possa affermarsi. Va da sé che perché ciò accada, occorre un profondo cambiamento dei rapporti di forza vigenti.
Oggi in Italia si lavora 24 ore su 24 in tutta la rete distributiva. E’ un risultato delle “lenzuolate” dei governi di centrosinistra e tecnici. Precarietà, deregolazione degli orari: una miscela esplosiva…
La regressione della condizione lavorativa è sotto gli occhi di tutti. La precarietà del rapporto di lavoro sempre più diffusa porta con sé la drammaticità dell’incertezza circa la vita, il futuro per una intera generazione. All’insegna della centralità del mercato, dell’impresa, del profitto si rivivono condizioni di sfruttamento che rinviano ad altre epoche, che rendono possibile parlare di nuove forme di schiavismo. Non a caso. E’ il prodotto delle politiche affermatesi nel tempo all’insegna del liberismo, alle quali è giusto riferire per tanta parte anche le cosiddette “lenzuolate di Bersani”, le scelte dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese, ivi compresi quelli di centrosinistra. Quando si parla di regressione della condizione lavorativa è evidente il filo che lega il pacchetto Treu, la Legge 30, i provvedimenti Monti- Fornero, il jobs act: diverse facce della stessa medaglia.
Nel sindacato soffriamo la mancanza di un riferimento politico della nostra azione quotidiana. Manca una sponda politica e parlamentare che si faccia carico delle rivendicazioni del lavoro; manca una proposta di sinistra per affrontare la crisi.
Per uscire dalla crisi serve rompere con la cultura politica dominante, con i vincoli imposti da un’Europa essenzialmente finanziaria, assai poco economica, per nulla sociale; serve affermare la parola d’ordine più stato e meno mercato. Il PCI ha presentato da tempo un programma, credibile, fattibile. Ci dicono spesso che mancano le risorse, sappiamo che non è vero: le risorse ci sono, la scelta è quindi politica.
Oggi il mondo del lavoro e le organizzazioni sindacali che si propongono di rappresentarlo si misurano con l’assenza della rappresentanza politica, di un soggetto capace di raccoglierne e rappresentarne le istanze nella società, nei luoghi deputati a darvi risposta (basta guardare alla composizione del parlamento per avere la conferma dello scarto esistente al riguardo). I tanti conflitti che pure si manifestano finiscono con l’essere oscurati, privi del necessario respiro. Rimettere in campo una soggettività politica che assuma il lavoro come riferimento, che si proponga di dare voce alle tante ed ai tanti che vivono una situazione inaccettabile, prima ancora che insostenibile, è quindi una esigenza.