#FastFoodGlobal è l’hashtag creato per identificare la campagna mondiale sui social media, con l’ambizione di trasformarlo in realtà: una lotta globale e coordinata delle lavoratrici e lavoratori dei fast food per condizioni di lavoro dignitose.
Dal 2013 l’IUF/UITA (la Federazione internazionale dei Sindacati dell’Industria alimentare, dell’Agricoltura e del Turismo) ha lanciato una campagna a livello globale nel settore dei fast food, con il coinvolgemento dei sindacati affiliati con lo scopo di metterli in contatto, condividere i problemi, le vittorie, condurre azioni congiunte di solidarietà, quando troppo spesso i lavoratori sono attaccati, e di lotta; tutto questo col fine ultimo di dare visibilità alle lotte dei lavoratori altrimenti invisibili, diffondere le conquiste ed ottenere un riconoscimento globale dalle multinazionali per mettere gli affiliati nella condizione di esigere diritti sindacali tutt’oggi negati e negoziare migliori condizioni di lavoro e diritti per lavoratrici e lavoratori del settore. Lo spunto e il traino l’hanno dato ovviamente gli americani di SEIU con la campagna “FightFor15”, che si prefigge di innalzare il salario minimo a 15 dollari per ora e ottenere diritti sindacali [della campagna FightFor15, su “reds” ci siamo già occupati più volte con articoli di compagni della SEIU e dell’ALF-CIO].
Nel 2013 i sindacati di 30 paesi hanno organizzato azioni di sostegno a lavoratori migranti negli Stati Uniti sottoposti a condizioni di lavoro vessatorie presso un ristorante in franchising McDonald’s. Questo ci ha fatto discutere sul futuro del settore e capire che c’era la necessità di un coordinamento globale per far fronte alle multinazionali. Infatti il settore è dominato da un pugno di multinazionali, con il leader assoluto McDonald’s che è il secondo datore di lavoro mondiale nel settore privato considerando i dipendenti nei ristoranti in franchising. A fronte di tali dimensioni, come per le multinazionali degli altri settori, la lotta deve essere globale, limitarla esclusivamente a un piano locale può vedere qualche singola vittoria ma nel complessivo è miope e perdente.
Il 2014 è stato l’anno della svolta, nel mese di maggio a New York è stata organizzata la prima “Riunione Internazionale dei Lavoratori dei Fast Food”, che ha visto anche la presenza della Filcams-CGIL, con la partecipazione di più di 80 partecipanti da 26 paesi, i quali hanno condiviso esperienze, modelli organizzativi e le sfide a cui sono chiamati a rispondere, per cambiare le condizioni di lavoro di milioni di lavoratori in tutto il mondo. Il giorno successivo i partecipanti hanno preso parte ad una mobilitazione di lavoratori e lavoratrici statunitensi di fronte ad un McDonald’s di Manhattan, seguita dalla consegna di una lettera a McDonald’s con la richiesta di aumentare i salari e di rispettare lavoratrici elavoratori in tutto il mondo. Pochi giorni dopo, il 15 maggio, si è svolto il primo “International Fast Food Workers Day” durante il quale i lavoratori dei fast food hanno organizzato azioni di lotta in 230 città in oltre trenta paesi. Queste giornate di lotta collettive si sono svolte anche negli anni a seguire ma è importante sottolineare che le azioni di sindacalizzazione e mobilitazione avvengono quotidianamente nei luoghi di lavoro.
Ovviamente c’è da specificare che le condizioni di lavoro non sono assolutamente omogenee nel settore dei fast food: spiccano le condizioni dei paesi nordici, Danimarca e Svezia in primis, in tema di salari, salute e sicurezza e diritti sindacali. Sempre in Europa ci sono buoni esempi in Belgio, Austria, Germania e Italia, dove a fronte di un’inesistente contrattazione aziendale rimane comunque la copertura universale del contratto nazionale. Nel resto del mondo sono tratti comuni il lavoro precario, l’alto turnover, le scarse le misure di salute e sicurezza a favore dei lavoratori e la repressione delle multinazionali ai tentativi dei lavoratori di organizzarsi. Per quanto riguarda il salario, questo si attesta al minimo previsto per legge, se presente, con il paradosso che mesi fa McDonald’s aveva pubblicato un strumento di pianificazione del bilancio rivolto ai suoi dipendenti negli Stati Uniti in cui implicitamente ammetteva la necessità di un secondo lavoro per poter arrivare alla fine del mese.
I casi di Nuova Zelanda e Regno Unito meritano un approfondimento a parte. In Nuova Zelanda, il piccolo ma militante sindacato Unite Union da anni organizza i lavoratori dei fast food con una campagna molto aggressiva iniziata nel 2005 e caratterizzata dallo slogan “SuperSize My Pay” (“ingigantisci la mia paga”, giocando sul termine “supersize” che viene utilizzato nei menu per le porzioni extra-large). Le ridotte capacità finanziarie del sindacato non avrebbero permesso di organizzare unacampagna di sindacalizzazione quindi hanno chiesto alle altre federazioni nazionali, ed in parte ottenuto, dei finanziamenti argomentando la richiesta col fatto che un lavoratore sindacalizzato di un fast food, normalmente studente quindi con un’altra probabilità di cambiare settore alla fine del corso di studi, sarebbe diventato un lavoratore già sindacalizzato e con una coscienza di classe. Dopo il successo nella negoziazione di salari più alti, la campagna si è concentrata sulla garanzia di un numero minimo di ore settimanali e l’esposizione dei turni di lavoro. I negoziati, sostenuti da una massiccia mobilitazione dei lavoratori, sono durati mesi ma alla fine il sindacato è riuscito a firmare accordi con le principali catene. Ma la cosa più straordinaria è che questa mobilitazione, sostenuta in seguito dalle federazioni di altri settori, si è trasformata in legge nel marzo 2016 permettendo ai lavoratori di beneficiare di clausole contrattuali molti più favorevoli.
Il sindacato britannico BFAWU, che organizza principalmente il settore della panificazione, ma era attivo nel settore dei fast food da qualche anno, ha deciso anch’esso di dare battaglia al lavoro a chiamata. Nel Regno Unito è un fenomeno dilagante, presente in tutti i settori, specialmente nella ristorazione e nel commercio. Con poche risorse a disposizione ma con il sostegno internazionale, ha cominciato un’opera di sindacalizzazione nelle principali città, fino ad arrivare al primo sciopero della storia nel settore avvenuto il 4 settembre 2016 in occasione della giornata mondiale di mobilitazione. La strada da fare è ovviamente molta ma la risposta positiva dei lavoratori e di una parte della politica, primo fra tutti il leader laburista Jeremy Corbin, fa sperare in una campagna di lunga durata.
In conclusione possiamo affermare di essere positivamente sorpresi dalla risposta degli affiliati e dalla volontà di lavorare assieme in una campagna globale che mostra tanti limiti ma anche tanta determinazione. E “determinazione” è forse l’aspetto chiave di tutto perché tutti sono coscienti che non sarà una campagna breve e i risultati non saranno immediatamente visibili. Nonostante questo, bisogna continuare a costruire assieme giorno dopo giorno condizioni migliori per le lavoratrici e lavoratori del settore.