La Bolivia “piace”, il Venezuela no. Ma il 20 maggio il socialismo bolivariano sarà sottoposto al voto, per la venticinquesima volta
La Bolivia “piace”, il Venezuela no. Israele è democratico, la Siria no. Se i manifestanti attaccano la polizia in Europa sono “terroristi”, se bruciano vive le persone in Venezuela, sono “pacifici manifestanti”. Con quale bussola orientarsi nel mondo, con quali lenti scorgere il complicato cammino della lotta di classe assunta dai popoli privi di una sponda forte nel cuore del capitalismo mondiale? La “leggerezza” del post-novecento non è evidentemente quella dell’uccello, capace di librarsi in volo senza le “pastoie” delle cosiddette grandi ideologie, ma quella della piuma, preda di mille correnti. Guardare in faccia il conflitto per come si presenta nel sistema-mondo non serve alla ricerca di “modelli”, ma senz’altro a individuare meglio i termini di quel che ci compete. Serve, per lo meno, a non sgomitare inutilmente per conquistarsi un posto in prima fila... sul Titanic.
Il socialismo bolivariano, in questo senso, può essere un caso di scuola, a meno di due mesi dalle prossime elezioni presidenziali. Quella che si svolgerà il 20 maggio in Venezuela, sarà la n. 25. Si può considerare dittatoriale un governo che, dal 1998, ha organizzato 25 elezioni? Ogni processo elettorale ha visto la partecipazione di centinaia di osservatori, anche provenienti da paesi ostili.
Nel 2015, quando si sono svolte le parlamentari, vinte dall’opposizione, un gruppetto di impresentabili ex presidenti latinoamericani ha potuto permettersi degli show inimmaginabili in un paese europeo. E, forte del sostegno degli Stati uniti, quel gruppetto era già pronto a disconoscere i risultati, qualora non avessero vinto le destre, da loro sostenute. Appena il Cne, l’autorità elettorale, ha comunicato i risultati, il presidente, Nicolas Maduro, ha subito riconosciuto la sconfitta. E così era successo quando, in uno degli Stati più importanti del Venezuela – quello di Miranda – il candidato di opposizione, Henrique Capriles, aveva battuto per un pugno di voti l’avversario socialista, Elias Jaua.
Tutt’altro atteggiamento ha poi tenuto invece il signor Capriles quando, sconfitto con stretto margine da Maduro alle presidenziali del 2013, ha invitato i suoi a “sfogare l’incazzatura”: ovvero a bruciare i consultori pubblici con i medici cubani dentro, a uccidere i chavisti (11 morti) e a provocare milioni di danni alle strutture pubbliche.
Dal Parlamento in mano alle destre, avrebbe potuto scaturire una normale dialettica democratica – anche vivace – ma dentro le istituzioni, votate a stragrande maggioranza dopo l’Assemblea nazionale costituente del 1999. Invece è iniziata una strategia destabilizzante, con la complicità (ignorante o neocoloniale) dei media occidentali.
Se la costituzione bolivariana prevede un equilibrio di 5 poteri (2 in più rispetto ai 3 di quella italiana) e uno vuole prevalere sugli altri (il parlamento), è questo potere a porsi fuori dalla legge, non le istituzioni preposte al controllo. Invece, in Italia e in Europa, si è deciso di appoggiare qualunque decisione del parlamento di opposizione, anche quella di richiedere un intervento armato esterno contro il Venezuela, che verrebbe considerata alto tradimento in qualunque paese d’Europa.
Un altro esempio. Il sistema elettorale venezuelano, altamente informatizzato e soggetto a molteplici verifiche, prima e dopo il voto, è sempre stato considerato a prova di frodi. L’anno scorso, nel pieno della campagna contro il socialismo bolivariano, il capo della società Smartmatic, che gestiva da sempre quel sistema, ha scelto il “suicidio” commerciale per non perdere i suoi interessi negli Usa. Dopo essere fuggito a Londra, ha dichiarato che il suo sistema non era poi così sicuro. La Smartmatic è ricomparsa in Italia per gestire il referendum della Lega “per l’autonomia in Lombardia e Veneto”...
Il 20 maggio, contro Nicolas Maduro - che si propone per un secondo mandato, appoggiato da tutte le sinistre - si presentano 5 candidati, sia di destra che del cosiddetto “chavismo dissidente”. C’è anche un potente pastore evangelico. Il più quotato candidato delle destre è l’ex governatore dello Stato Lara, Henry Falcon, che ha promesso di “dollarizzare” il paese, che fino ad ora ha avuto come moneta nazionale il bolivar. Le destre oltranziste, sostenute dagli Usa e dalle sanzioni emesse anche dall’Europa, invitano al boicottaggio, dopo aver rifiutato tutte le sponde offerte per riconoscere il registro elettorale (quello stesso che sempre utilizzano per le loro primarie interne e con il quale hanno vinto diverse elezioni).
In quale paese al mondo in cui esistono istituzioni riconosciute si spendono denaro e energie per un “processo di pace” all’estero come in un paese in guerra solo perché le opposizioni promettano di non organizzare un golpe? Eppure succede in Venezuela. E alla fine le destre disattendono gli impegni presi perché arriva una telefonata di Trump. E ci casca pure la navigatissima Europa...
Un ultimo esempio. A differenza di quanto accade nel nostro paese, la legge, in Venezuela, tutela le occupazioni di terre e di case sfitte. Recentemente, però, alcune organizzazioni contadine sono state messe in galera proprio durante un’occupazione, e liberate solo dopo l’intervento del “potere popolare” e del governo. In quel caso, i giudici avevano ceduto alle pressioni dei latifondisti che, nella democrazia “partecipata e protagonista” (e non rappresentativa, come in Italia), non sono stati espropriati, ma dovrebbero rispettare la legge.
Una prova in più che l’indipendenza della magistratura esiste eccome, e infatti molta della corruzione e dell’impunità (per chi può pagare), prospera proprio all’ombra di quelle caste che proteggono grandi interessi.
Il socialismo bolivariano, che non ha messo fuori legge la borghesia mediante una rivoluzione novecentesca, è tutt’altro che “totalitario”. Gran parte dei problemi che presenta sono semmai dovuti proprio alla scommessa di costruire “il socialismo umanista” svuotando dall’interno la vecchia struttura dello Stato borghese: che sta giocando la sua partita, dentro il paese e dentro il continente. E soprattutto a livello internazionale. Il Venezuela “è una minaccia straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti”. Così il democratico Obama aveva motivato le sanzioni contro il governo bolivariano, poi rinnovate e appesantite da Trump con un blocco economico-finanziario pari a quello imposto a Cuba.
La minaccia dell’esempio: perché se Maduro aumenta il salario e le pensioni due volte all’anno, se malgrado la caduta del prezzo del petrolio continua a destinare oltre il 70% delle risorse ai settori popolari, il messaggio da stroncare è che questo è possibile. E’ possibile far pagare la crisi ai padroni.