Le “Italie” di Fabro, fucina di memoria storica e culturale
E’ il 1968, l’anno delle conquiste studentesche e operaie, di scontri, di fermento politico e culturale, l’apice di un movimento che ha attraversato non solo l’Italia, ma buona parte del mondo.
Dal 1968 Luciano Fabro ha capovolto, rivestito di pelliccia, realizzato in oro e in vetro l’Italia. Ne ha trasformato la sua riconoscibile silhoutte, lo stivale noto in tutto il mondo, in metafora di un paese in evoluzione storica e sociale. C’è chi ha visto nell’Italia rovesciata l’immagine della rivincita del Sud sull’industrializzato Nord e nel suo strozzare l’Italia con una corda il simbolo di un paese sopraffatto dagli eventi. Di simbolico però le Italie di Fabro non hanno nulla perché con le sue opere l’artista torinese ha chiesto all’arte di essere se stessa, di essere un’attività che serve a porre e porsi domande sul mondo e sulla realtà. Nel decennio precedente l’Informale aveva cancellato il concetto di forma invitando l’arte a fare tabula rasa delle esperienze passate e a considerare l’opera come presenza in un mondo che non necessitava più di rappresentazioni celebrative. Fabro mette in scena le forze invisibili del mondo per eliminare la possibilità di un’interpretazione univoca e coerente, per fare proprio l’essere presente ed entrando così a far parte di quella che Germano Celant ha definito Arte Povera. Quelle sagome appese al muro o al soffitto, issate come una bandiera, sono da leggere allora come ritratti e in quanto tali portatori di una realtà da scoprire. L’arte di Fabro non lancia messaggi, sfida la tradizionale concezione di pittura seguendo la lezione di Lucio Fontana che squarciando le sue tele aveva aperto lo sguardo e superato la bidimensionalità.
L’Italia diventa allora entità geografica, luogo di conflitti storici e culturali, ma anche di identità e di valori. I materiali utilizzati ne ritraggono talvolta la sua potenza altre volte la sua fragilità. E’ l’immagine di un paese che con forza tenta di inserirsi in quel panorama europeo culturale e politico dal quale troppo spesso rimane esclusa, ma che allo stesso tempo dimentica il proprio patrimonio e la propria storia; una nazione divisa, frammentata, che ritrova la propria unità in momento storici cruciali; la culla della cultura e dell’arte, terra di grandi pensatori e oratori troppo spesso dimenticati. Luciano Fabro ne ha messo in luce le contraddizioni intime portando le sue Italie fuori dagli ambiti museali, installandole nelle piazze come fece a Napoli a Piazza del Plebiscito e sui muri delle case come a San Gimignano.
Il Sessantotto sembrava rappresentare, con le sue lotte e le sue conquiste, per l’Italia e per il mondo, un momento storico dal quale poter andare solo avanti. Oggi l’Italia invece sembra tornare indietro mettendo in discussione l’aborto, il diritto allo studio e quello all’infanzia, le conquiste dei diritti civili e del lavoro dividendosi ancora una volta, ma non più in Nord e Sud, bensì in ricchissimi e poveri. E’ una nazione governata da una classe politica che ha dimenticato il concetto di polis e che preferisce all’oratoria il discorso semplicistico dai tratti autoritari e prevaricatori e in cui gli intellettuali sono additati come incapaci di vivere nel proprio tempo.
Luciano Fabro è morto nel 2007 a Milano - dove ha fondato nel 1978 la Casa degli artisti, grande punto di incontro e stimolo per l’arte milanese di tutto il decennio successivo - lasciando l’immagine realistica, seppur non nella forma, di un’Italia alla quale bisognerebbe guardare per riportare alla luce una memoria storica e culturale nazionale affossata oggi da un qualunquismo dilagante.