Ortolani (Filcams Lombardia) fa il punto sull’attesa norma, che rimedierebbe non soltanto all’ingiustizia subita da centinaia di migliaia lavoratori, ma anche ad uno spreco di soldi pubblici
Sarà la volta buona? Ad un anno esatto dal primo tentativo, nelle pieghe della manovra economica potrebbe essere finalmente inserita la norma che rimedierebbe non soltanto ad una ingiustizia subita da centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori con un contratto a tempo indeterminato di part-time ciclico, ma anche a uno spreco di soldi pubblici da parte dell’Inps. Non altrimenti si potrebbero definire le spese sostenute dal principale ente di previdenza per affrontare – e perdere sistematicamente – le cause mosse dai lavoratori per veder riconosciuti diritti e tutele anche nei periodi non retribuiti. Tutele come il corretto conteggio dei contributi per la futura (e sempre più lontana) pensione. Diritti come la possibilità di accedere ai sussidi nel malaugurato caso di una crisi aziendale.
L’Inps spende i soldi della collettività resistendo fino all’ultimo grado di giudizio. E invariabilmente perde, perché le cause già arrivate in Cassazione hanno fatto giurisprudenza, imponendo all’istituto di previdenza di riconoscere le 52 settimane di contributi. L’effetto diretto di una sentenza della Corte di giustizia europea vecchia ormai di otto anni (10 giugno 2010) che ha affermato il principio di non discriminazione tra i lavoratori part-time e quelli full-time, disponendo testualmente: “L’anzianità contributiva, utile ai fini della determinazione della data di acquisizione del diritto alla pensione, sia calcolata per il lavoratore a tempo parziale come se egli avesse occupato un posto a tempo pieno”.
Da allora è iniziata una kafkiana guerra di trincea. Con l’Inps che difende la sua strategia d’azione, dicendo che è compito del governo prendere provvedimenti. Mentre i diretti interessati, assistiti dai sindacati confederali, in particolare quelli del commercio, turismo e servizi, e quelli del lavoro nelle strutture pubbliche, sono costretti ad un lungo iter giudiziario. “Lavoratori e lavoratrici sono costretti ad aspettare ulteriori anni – tira le somme Giorgio Ortolani della Filcams Cgil lombarda - prima di poter ottenere quanto spetta di diritto. Mentre al tempo stesso si sprecano risorse pubbliche”.
Lo scorso anno, nella legislatura al tramonto, erano stati presentati nella manovra economica per il 2018 due emendamenti, uno da parte del Pd, l’altro del Movimento 5 Stelle. Ma il governo Gentiloni non aveva consentito il voto. Dopo il 4 marzo l’autore dell’emendamento pentastellato, Claudio Cominardi, è diventato sottosegretario al lavoro. In teoria una buona notizia, visto che nelle pieghe dell’attuale manovra economica ci sono anche stavolta emendamenti ad hoc, del Pd e della stessa, “governativa” Lega. E c’è naturalmente un documento sul part-time verticale proposto dalle organizzazioni sindacali. Ma al già dichiarato impegno di trovare le risorse per risolvere il problema, si sta accompagnando l’iter particolarmente accidentato della manovra economica per il 2019.
Nell’attesa di vedere come andrà a finire, è bene ricordare che il provvedimento del governo Conte Salvini Di Maio riguarderebbe oltre 100mila lavoratori e lavoratrici nei soli appalti dei servizi scolastici, cui vanno aggiunti tutti i part-time ciclici assunti nelle imprese private. Nel dettaglio, si va dagli addetti dipendenti di cooperative e ditte di appalto che svolgono la loro attività nel settore scolastico di molte regioni, lavorando nelle mense, nelle pulizie, nell’assistenza ai bambini con deficit psico-fisici, negli asili nido e nelle materne, fino al sistema di cura e assistenza sanitaria extra o para pubblico. E ancora l’ambito delle pulizie, i lavori stagionali e la ristorazione, gli addetti al turismo, e naturalmente i dipendenti part-time di imprese private. Fra questi, sempre più spesso, i metalmeccanici stagionali, come alla Piaggio di Pontedera, e gli agroalimentari stagionali in aziende prospere come la Ferrero.
Con un intelligente videomessaggio (https://youtu.be/VC5h9jnhLPc) ai parlamentari, l’estate scorsa i sindacati confederali bresciani hanno ribadito la necessità di approvare il provvedimento. Un modo per dare osservare la legge. E al tempo stesso scalfire la punta di un iceberg che, nel prossimo futuro, minaccerà la coesione sociale del paese: “Se per questi lavoratori è possibile trovare una soluzione legale, facendo leva sul contratto a tempo indeterminato – spiega al riguardo Giorgio Ortolani - per tutti gli altri precari, segnati da carriere discontinue, non sarà così facile. Perché i minimi contributivi (10.440 euro annuali, ndr) sono stati definiti nel 1992, quando il lavoro era una certezza. Mentre oggi oltre il 25% di che lavora è part-time, e per molti quei minimi non sono certo facili da raggiungere, e risultano spesso inavvicinabili. Ne risulta che chi ha un lavoro povero, con un reddito basso durante la carriera lavorativa, avrà anche una pensione bassa, a volte inferiore alla pensione sociale. Per giunta dovrà lavorare più anni per arrivarci”.