Carissime/i,
ad undici anni dall’approvazione del D.Lgs 81/08, mi pare inevitabile interrogarsi sull’efficacia delle norme di prevenzione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro che attualmente sono in vigore. Il tempo è una variabile fondamentale per valutare la portata e la riuscita di una legge. E allora, proviamo ad andare un po’ indietro nel tempo. A capire la genesi del Testo Unico in materia di Salute e Sicurezza sui luoghi di Lavoro.
Politicamente…il Decreto Legislativo 81/08 doveva rappresentare un messaggio e un impegno di speranza nell’affrontare, a livello normativo, la continua proliferazione degli infortuni e delle morti sul lavoro. Era ancora caldo il sangue delle vittime del doloroso incidente alla Thyssen Krupp, avvenuto a Torino nella notte tra il 5 ed il 6 dicembre 2007. Quello che per tutti è considerato il più grave incidente sul lavoro nell’Italia contemporanea.
Quell’episodio, seguito purtroppo da altri in una rapida sequenza di morte, fece maturare la consapevolezza in tutti gli attori sociali della necessità di concludere l’iter normativo per l’approvazione di un Testo che fosse all’avanguardia. E così è stato: il D.Lgs. 81/08 è stato approvato con un Governo dimissionario, dopo le elezioni, a Camere chiuse. Il Parlamento fu unito nel condannare l’escalation di infortuni e morti sul lavoro e nell’adoperarsi per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro. Ricordo a me stesso il clima di forte rabbia, successivo a questi episodi tragici, che c’era nel Paese ed il monito che l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lanciò alle forze politiche: “Quando si verificano assurde e atroci tragedie sul lavoro in angosciosa sequenza, in cui perdono la vita dei lavoratori, si leva ancor più fortemente il grido 'basta!' Non può continuare così, non ci si può rassegnare come una inevitabile fatalità; dobbiamo tutti rimboccarci le maniche”. Bene, ad undici anni dall’entrata del T.U. su SSL quali riflessioni possiamo porre in essere? Perché questa legge, per molte aziende, pare ancora oggi rappresentare una sostanziale novità? Senza tediarvi troppo e senza entrare nel merito di tecnicismi che potrebbero rendere poco interessante questo modesto contributo di idee, si può affermare che il Decreto Legislativo 81/08 rappresenta sicuramente una norma di alto livello, ma anche largamente incompleta e soprattutto interpretata in modo troppo disomogeneo e diversificato sul territorio nazionale e dagli organi di vigilanza. Il D.Lgs 81/08 è un testo corposo e complesso, composto da XIII titoli e 306 articoli, oltre a 51 allegati tecnici. Tale testo, nel corso di questi undici anni, ha subito parziali modifiche che non sempre sono state lineari, che non sempre hanno avuto una visione d’insieme. In alcuni casi, gli interventi del legislatore più che semplificare hanno burocratizzato una materia già di per sé fortemente complessa.
Un esempio? Il discorso legato alle competenze tra Stato e Regioni in materia antinfortunistica. Ad oggi esiste un fattore di debolezza: troppo spesso le norme in materia di SSL sono state interpretate dagli organi di vigilanza competenti in materia in modo niente affatto uniforme nelle diverse Regioni o Province autonome. Gli operatori, con sempre maggiore insistenza, hanno dapprima segnalato le difficoltà ed i ritardi nel coordinamento e nella cooperazione tra gli organismi statali e periferici e poi provato ad individuare e suggerire soluzioni al Governo ed al Parlamento, auspicando un mutamento dell’assetto istituzionale, con particolare riferimento alle attribuzioni della titolarità della vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro. La prima ipotesi presa in considerazione è stata quella di una proposta di modifica dell’articolo 117 della Costituzione per riportare alla competenza esclusiva dello Stato la potestà legislativa in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Con questa proposta di revisione costituzionale non si intendeva tuttavia sottrarre competenze o poteri alle Regioni e alle Province autonome (la cui potestà legislativa concorrente potrebbe manifestarsi tramite deroghe migliorative rispetto ai livelli dettati dalla legislazione statale), in nome di una malintesa forma di statalismo o centralismo, bensì piuttosto ripristinare le condizioni per l’esercizio di un effettivo potere di indirizzo e di programmazione nelle politiche a favore della salute e sicurezza sul lavoro, capace di dispiegarsi in maniera univoca su tutto il territorio nazionale, per assicurare uguali livelli di tutela di diritti che – è bene ribadirlo – sono costituzionalmente garantiti. Questa posizione trova conforto nel confronto con l’assetto normativo di altri Paesi. In Francia, Regno Unito e persino in una nazione di marcata impronta federalista come la Germania, ad esempio, la potestà legislativa in materia di “tutela e sicurezza del lavoro” è di esclusiva competenza statale. Si parla da tanto tempo di un’Agenzia nazionale per la salute e la sicurezza sul lavoro con compiti di programmazione e coordinamento delle attività di prevenzione e di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Una simile scelta sarebbe una semplificazione, sia in quanto individuerebbe un riferimento unico a livello nazionale in luogo di tanti a livello territoriale e sia perché renderebbe possibile l’eliminazione, per quanto graduale, di atti complessi e spesso in contrasto tra loro. Eliminare la disomogeneità tra normative territoriali di salute e sicurezza sul lavoro, evitare un’inutile e dannosa esposizione dei lavoratori al rischio del difetto di tutela sui luoghi di lavoro e dello Stato alla responsabilità risarcitoria per incompleta attuazione delle direttive comunitarie può essere un obiettivo praticabile. Ci sono stati dei passaggi parlamentari, ma molto resta ancora da fare ed il sindacato, a mio modesto avviso, può e deve offrire un apprezzabile e qualificato contributo di idee.
E poi c’è il discorso, anche questo lungo e complesso, legato alla prevenzione, alla formazione alla cooperazione. Attuare pienamente la 81/08 significa lavorare per ridurre la probabilità che un evento rischioso possa accadere; significa formare i lavoratori, i loro rappresentanti e tutti i soggetti della sicurezza presenti in azienda; significa individuare responsabilità e figure professionali che debbono cooperare (lavorare insieme!) per far diventare le nostre aziende maggiormente sicure. Significa, quindi, smetterla di indignarsi solo in presenza di infortuni e morti bianche.
Certo, i dati ufficiali sono drammaticamente chiari: circa 4 morti al giorno. Nel periodo Gennaio-Giugno 2019, secondo l’Inail, (https://dati.inail.it/opendata/default/Qualidati/index.html), le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale sono state 482, 13 in più rispetto al primo semestre del 2018 (+2,8%). A livello nazionale, i dati rilevati al 30 giugno di ciascun anno evidenziano sette denunce in più per i casi mortali avvenuti in occasione di lavoro (da 331 a 338) e sei in più per quelli occorsi in itinere (da 138 a 144). A livello gestionale, l’Agricoltura ha registrato un aumento di 22 denunce (da 43 a 65) e il Conto Stato di una (da 7 a 8), a fronte di 10 casi in meno nell’Industria e servizi (da 419 a 409). Dall’analisi territoriale emerge un aumento dei casi mortali solo nell’Italia centrale e meridionale: 13 in più al Centro (da 91 a 104), 15 in più al Sud (da 87 a 102) e 14 in più nelle Isole (da 34 a 48). Nel Settentrione si rileva, invece, una diminuzione di un caso nel Nord-Ovest (da 124 a 123) e di 28 nel Nord-Est (da 133 a 105). A livello regionale, spiccano i 16 casi mortali in più denunciati in Sicilia e i 20 in meno in Veneto. L’analisi di genere mostra, nel confronto tra i primi sei mesi del 2019 e del 2018, un andamento opposto tra i due sessi: 23 casi mortali in più per gli uomini (da 418 a 441) e 10 in meno per le donne (da 51 a 41). In aumento le denunce di infortunio con esito mortale per i lavoratori comunitari (da 24 a 33) ed extracomunitari (da 54 a 58), mentre si conferma il dato per gli italiani, con 391 casi mortali denunciati in entrambi i periodi. Dall’analisi per classi di età emergono incrementi nella fascia 45-54 anni (+41 casi) e in quella 20-34 anni (+22), a fronte di 12 decessi in meno per i lavoratori tra i 35-44 anni e di 30 in meno per quelli tra i 55 e i 64 anni. Nel primo semestre 2019 tra gli under 20 si registra una denuncia di infortunio con esito mortale, rispetto ai nove casi denunciati nel 2018 tra gennaio e giugno. In entrambi i primi semestri sono avvenuti nove incidenti “plurimi”, espressione che indica gli eventi che causano la morte di almeno due lavoratori, con 23 vittime tra gennaio e giugno dell’anno scorso e 18 nei primi sei mesi del 2019, queste ultime tutte in ambito stradale.
Totale casi di morte sul lavoro in Italia nel periodo: gennaio – giugno |
||
Anno |
n° casi |
Variazione % rispetto all'anno precedente |
2018 |
469 |
- |
2019 |
482 |
2,8% |
Fonte: Dati INAIL |
Una vera e propria strage che non fa notizia se non nei casi gravissimi nei quali le modalità dell’accadimento o il numero delle vittime muovono il sentimento popolare. In tutti gli altri casi, la strage degli invisibili trova spazio solo in un trafiletto di cronaca di qualche giornale locale. E poi ci sono gli infortuni sui luoghi di lavoro. Sempre secondo l’Inail, le denunce d’infortunio presentate entro lo scorso entro lo scorso mese di giugno sono state 323.831, 577 in meno rispetto alle 324.408 dei primi sei mesi del 2018 (-0,2%).
I dati rilevati al 30 giugno di ciascun anno evidenziano a livello nazionale un decremento dei casi avvenuti in occasione di lavoro, passati da 277.690 a 276.043 (-0,6%), e un incremento del 2,3%, da 46.718 a 47.788, di quelli in itinere, occorsi cioè nel tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro. A giugno 2019 il numero degli infortuni sul lavoro denunciati è diminuito dello 0,8% nella gestione Industria e servizi (dai 245.439 casi del 2018 ai 243.591 del 2019), mentre è aumentato dell’1,3% in Agricoltura (da 15.490 a 15.694) e dell’1,7% nel Conto Stato (da 63.479 a 64.546). L’analisi a livello territoriale evidenzia una diminuzione delle denunce di infortunio nel Nord-Ovest e nel Nord-Est (-0,3% per entrambe), al Sud (-0,9%) e nelle Isole (-0,2%). Il Centro, in controtendenza, presenta un aumento dello 0,7%.
Tra le regioni che hanno fatto registrare i decrementi percentuali maggiori spiccano il Molise (-5,7%) e la Valle d’Aosta (-3,2%), mentre gli incrementi più consistenti riguardano la Sardegna (+3,3%) e l’Umbria (+3,1%). Il lieve calo che emerge dal confronto dei primi sei mesi del 2018 e del 2019 è legato esclusivamente alla componente maschile, che registra un -0,4% (da 206.893 a 206.010 denunce), a differenza di quella femminile, in aumento dello 0,3% (da 117.515 a 117.821). Per i lavoratori extracomunitari si registra un incremento degli infortuni denunciati del 3,7% (da 38.340 a 39.745), mentre le denunce dei lavoratori italiani sono in calo dello 0,6% (da 273.646 a 271.887) e quelle dei comunitari dell’1,8% (da 12.421 a 12.194).
Dall’analisi per classi di età emergono aumenti tra gli under 30 (+2,2%) e tra i 55 e i 69 anni (+2,8%). In diminuzione del 2,5%, invece, le denunce della fascia di lavoratori tra i 30 e i 54 anni, nella quale rientra oltre la metà dei casi registrati. Le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail nei primi sei mesi di quest’anno sono state 32.575, 354 in più rispetto allo stesso periodo del 2018 (+1,1%).
Le patologie denunciate sono aumentate solo nella gestione Industria e servizi, da 25.161 a 25.767 (+2,4%), mentre sono diminuite in Agricoltura, da 6.675 a 6.462 (-3,2%), e nel Conto Stato, da 385 a 346 (-10,1%).
A livello territoriale, l’aumento ha riguardato il Centro (+1,9%), il Sud (+0,3%), le Isole (+3,6%) e il Nord-Est (+0,4%). Il Nord-Ovest si distingue, invece, per un calo dello 0,6%.
In ottica di genere si rilevano 221 denunce di malattia professionale in più per le lavoratrici, da 8.644 a 8.865 (+2,6%), e 133 in più per i lavoratori, da 23.577 a 23.710 (+0,6%). In aumento sia le denunce dei lavoratori italiani, che sono passate da 30.170 a 30.306 (+0,5%), sia quelle dei comunitari, da 674 a 766 (+13,6%), e dei lavoratori extracomunitari, da 1.377 a 1.503 (+9,2%).
Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (19.019 casi), del sistema nervoso (3.314, con una prevalenza della sindrome del tunnel carpale) e dell’orecchio (2.187) continuano a rappresentare le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dalle patologie del sistema respiratorio (1.327) e dai tumori (1.226). Oltre 200 le denunce di malattie legate ai disturbi psichici e comportamentali e di quelle della cute e del tessuto sottocutaneo, mentre i casi di patologie del sistema circolatorio sono 131. Questi dati fanno riflettere e non tengono conto dei fenomeni del lavoro nero, nel qual caso è impossibile imbastire un qualsivoglia discorso legato alla sicurezza.
Di tutto questo è fatta la nostra economia quotidiana. Gli infortuni, le lesioni e la morte sono accettati come un rischio inevitabile e addirittura ‘ragionevole’ del lavoro e della produzione. E questa sensazione è ancora più forte dove prevalgono le piccole e piccolissime imprese; laddove le lacune legate alla questione della sicurezza sono ancora più marcate ed i prestatori d’opera, a loro volta, spesso sfidano la sorte affrontando le manovre del loro lavoro con inconsapevole incoscienza. Il rischio viene accettato e diventa così un elemento normale della produzione. La morte e l’invalidità diventano compagni di strada del lavoro, quasi un male necessario. Le regole della sicurezza allora vengono percepite come vincoli fastidiosi e burocratici da infrangere quando non se ne può fare a meno e da interpretare sempre nella maniera più formalistica e meno impegnativa. Le leggi non mancano, ma il mercato le sopporta male e, appena può, le dimentica o consapevolmente le viola. E non è solo un problema del lavoro.
La cultura della sicurezza sui luoghi di lavoro non riesce ad attecchire perché prima non si è sviluppata nel Paese una cultura della legalità. Bisogna dirlo senza infingimenti: il mondo del lavoro in Italia è caratterizzato da una consapevole, massiccia, diffusa elusione delle norme di sicurezza (e non solo) da parte dei datori di lavoro piccoli, grandi e medi. In alcuni casi l’incultura della sicurezza è andata ben al di là del lavoro.
Si pensi, ad esempio, ai reati ambientali che ancora stanno flagellando le nostre terre. Ribadisco: si tratta di una carenza che riguarda i fondamenti della cultura di un paese. Il D. Lgs. 81/08 è un testo che l’Europa ci invidia: il punto è quanto siamo disposti ad applicare quegli articoli e quelle prescrizioni. Perché altrove le leggi si rispettano, mentre da noi appena viene promulgata una nuova legge si paga uno stuolo di avvocati e consulenti per tentare di aggirarla? Molti lamentano la scarsità dei controlli e non si può dar loro torto, dal momento che toccano solo, mediamente, il 5% delle aziende.
Ciò significa che 95 aziende su 100 hanno ogni anno la ragionevole speranza di non essere visitate dagli organi di vigilanza. C’è, dunque, un problema che deriva dalla carenza del personale appartenente agli organi di controllo e un problema di efficienza delle ispezioni. Credo che occorra ripensare l’intero sistema, diffusamente ne ho parlato prima. Ma non basta. I rapporti sociali non posso fondarsi esclusivamente sul timore delle sanzioni o della repressione giudiziaria. Occorre una seria opera di formazione culturale di tutti i soggetti interessati. Occorre cambiare passo. Occorre, soprattutto su questi temi, costruire un dialogo coi datori di lavoro, cioè con coloro su cui grava il compito primario di istituire e governare il sistema di legalità e sicurezza nei luoghi di lavoro. Ed allora, proviamo ad emancipare il lavoro che da merce deve divenire valore culturale. Anche perché il lavoro è decisivo sul piano della concezione dell’agire ed anche sul piano della concezione dell’essere.
Certo, a me non sfuggono le difficoltà dei tempi moderni, soprattutto riguardo l’organizzazione e la rappresentanza di lavoratori nuovi che svolgono lavori nuovi. Ha ragione Zygmunt Bauman quando parla di società liquida. Sempre più vengono a mancare le certezze ed i punti di ancoraggio. Guardate, lo dico da Formatore della Sicurezza: c’è una stretta relazione tra precarietà del lavoro e sicurezza. Perché quando hai un contratto di pochi giorni, poche settimane, pochi mesi, non pensi a denunciare una situazione di scarsa sicurezza presente nella tua azienda. Così come non pensi alla formazione come strumento di prevenzione dai rischi.
Certo…la CGIL, attraverso il Piano del Lavoro e la Carta dei diritti universali dei lavoratori, sta provando a rimettere al centro del dibattito pubblico il tema della qualità del lavoro. Ma la strada è ancora lunga. Pensiamo, ad esempio, al tema delle visite prima di un’assunzione. Basta semplicemente un prelievo del sangue, ad opera del Medico Competente, per conoscere lo stato di gravidanza di una lavoratrice. Pensate che un datore di lavoro autorizzi un’assunzione a tempo determinato di una lavoratrice “in attesa”? Ed allora, la domanda è: perché il D.Lgs. 81/08 autorizza questi comportamenti mentre lo Statuto dei Lavoratori li vieta? Possiamo davvero, all’interno di questa conflittualità, rimettere al centro l’essere umano, i suoi bisogni ed emancipare il lavoro? Guardate, io sono un inguaribile romantico: pensavo e continuo a pensare che la speranza risieda nell’uomo, che il lavoro possa emanciparsi liberandosi dal ricatto della precarietà .
Ma il cambiamento del lavoro deve produrre innanzitutto un cambiamento dei modelli formativi. La formazione deve divenire centrale per cambiare i comportamenti nella prospettiva del lavoro. Ma cosa vuol dire formazione in azienda? Non certo mettere i lavoratori nella sala mensa e proiettare le slide. Molto più significativamente, vuol dire fare la formazione sul luogo di lavoro tra formatore e lavoratore. La problematica riguarda le ore di formazione: se devo svolgere 4 ore in un'aula di 30 allievi so bene che una parte del tempo viene dedicata alla presentazione, alle domande, alle risposte, ai questionari, all'intervallo per un caffè e, forse, se tutto va bene abbiamo svolto 3 ore di formazione. Ma se mi trovo faccia a faccia, in un rapporto diretto e dialogante tra allievo e docente, servono 4 ore o ne bastano due? E in queste ore farò solo lezione? Svilupperò una sola idea oppure porterò avanti un progetto? Ecco, quella della progettualità sarà forse la nuova frontiera della formazione che deve essere continua, permanente.
Ricominciare dalla progettazione, quindi, e dalla valutazione dei rischi per definire le necessità di cambiamento che verranno ad essere la base di una nuova formazione che poi possa essere utile al lavoro. In questo contesto il ruolo del docente-formatore deve essere quello di una figura nuova in grado di sviluppare nuove progettualità. Penso, ad esempio, ad un formatore-consulente, ad un coach, ad un formatore di squadra, di gruppi, di singoli: per l'azienda, per il management, per i dirigenti, per i lavoratori. Adottando una visione prospettica del progetto aziendale, andando sicuramente oltre l'aula con nuove ed innovative metodologie tecniche e didattiche, in stretta correlazione con lo sviluppo aziendale, la formazione sarà l'elemento fondamentale per il continuo cambiamento del lavoro; un lavoro che governa i cambiamenti; un lavoro che scommette su se stesso per affrontare al meglio i prossimi anni.
Pasquale Cesarano, Formatore della Sicurezza