Penne rotte, eppur bisogna andar - di Frida Nacinovich

Esordisco con una rivendicazione generazionale. So che può apparire ridicolo di fronte ai fiumi di millennials che giorno dopo giorno stanno riscrivendo la storia - patria e non - secondo una dimensione digitale, per cui quello che è successo prima è preistoria. Parlare a loro di prima Repubblica, di Craxi, De Mita, Andreotti, Berlinguer, è come parlare a me di Giolitti, Matteotti, De Gasperi, Togliatti. Cose antiche. Che però vanno sapute, inquadrate nel loro periodo storico. Perché ai miei tempi se non si sapeva un po’ di storia, si rischiava di non superare gli scrutini di giugno. E l’ignoranza era una cosa di cui vergognarsi. Tant’è. Oggi viviamo nell’epoca del qui ed ora, dell’hic et nunc, come dicevano i latini. Lo smemorato di Collegno non sarebbe passato alla storia. Paradossalmente, oggi, avrebbe potuto partecipare ad un quiz televisivo su materie di attualità. Tempi moderni, tempi strani, dove la comunicazione ha assunto un ruolo preponderante, a discapito dell’informazione. People are strange, cantava l’indimenticabile Jim Morrison. Succede così che un leader politico, forte di sondaggi favorevoli, si trasformi, come ha scritto Giuliano Ferrara, in un energumeno a torso nudo che, in ciabatte, dalla spiaggia di Milano Marittima, avvii una crisi di governo sputando sui suoi quattro assi - bada bene di un colore solo, il nero. Sappiamo come è andata a finire la storia, da settembre c’è un nuovo esecutivo, il comunicatore dell’odio verso i poveri, i diversi, quelli con un colore diverso della pelle continua a urlare ma dai banchi dell’opposizione. Come è potuto accadere? Credo che non sia estraneo ad una spiegazione logica un dato che arriva da ‘Prima comunicazione’ (periodico che si occupa soltanto del mondo dell’informazione e della comunicazione): nel 2019 continua a crescere il tempo che le persone, a livello mondiale, passano su internet per informarsi, a discapito di quello speso per la carta stampata. Un trend che si manterrà anche nei prossimi due anni. Stando ai numeri, nell’anno in corso il tempo speso sui canali digitali raggiungerà la quota di 170minuti giornalieri, poco meno di 3 ore. Nel 2021 supererà i 190minuti. Oculisti e ottici di tutto il mondo si stanno fregando le mani, da tempo. Al contrario, secondo le stime, nel 2021 si ridurrà a 9minuti il tempo speso ogni giorno a leggere quotidiani stampati. E a 4minuti quello dedicato ai magazine. Solo 10 anni fa i numeri erano ben diversi, con oltre 20minuti spesi ogni giorno sui quotidiani, circa 10 sui magazine. Da giornalista, ormai di lungo corso, credo di aver bisogno di aiuto e comprensione. Mi confortano le parole del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che all’atto dell’insediamento del nuovo governo ha ringraziato i giornalisti del loro lavoro, in quello che è stato un agosto politico rovente, come non si era mai visto. Anche Giuseppe Conte, il bis premier, ha osservato che “la qualità del dibattito democratico dipende, per buona parte, dal contributo critico che viene offerto ai cittadini tramite i mezzi di comunicazione”. Il presidente del Consiglio ha assicurato che il governo sarà particolarmente sensibile nella promozione del pluralismo dell’informazione, ringraziando la stampa per il suo insostituibile ruolo di termometro della democrazia. Se son rose fioriranno. Ma certo questo continuo rimando al ruolo dell’informazione e della comunicazione fa capire che non siamo messi benissimo. La prima reazione di una ‘matura’ giornalista, quale ormai io sono, potrebbe esse quella di salire su una torre di avorio, e affacciarmi dalla finestra osservando dall’alto gli avanzi del presente: le edicole che chiudono una dopo l’altra, giornalisti in coda al centro per l’impiego perché vorrebbero continuare a informare ma non sanno più dove farlo, le torri dei ‘big data’ che crescono, crescono, crescono sempre più alte coprendo l’orizzonte. Avete voluto lo smartphone? Usatelo. Io mi ero accontentata di una bicicletta rossa, me l’hanno subito rubata. E non posso neanche urlare ‘capitale corrotta, nazione infetta’. Dobbiamo pur dirlo, noi che da ragazzi guardavamo ‘Spazio 1999’, i meravigliosi Marin Landau e Barbara Bain, sognando che in questo secolo ci saremmo teletrasportati da un luogo all’altro, abbiamo avuto in cambio cellulari diventati computer da tasca e la tavoletta-computer detta tablet con cui ho scritto questa relazione. Ci siamo rimasti un po’ male, come quando a Natale scarti il regalo della zia e lo trovi invariabilmente deludente, tipo il maglione con le renne. Questa rivoluzione nella comunicazione ha terremotato il mondo dell’informazione. E va ammesso che anche noi addetti ai lavori abbiamo ballato troppo a lungo sul ponte del Titanic. Siamo finiti in bancarotta, come uno dei personaggi di ‘Fiesta’ di Hemingway: “Come ti sei ridotto così? In due modi, prima un po’ alla volta e poi tutto insieme”. Nell’aprile scorso l’ennesimo allarme rosso: rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, si sono vendute, in Italia, 196mila copie in meno di quotidiani. I numeri dicono che il Corriere della sera vende oggi 180mila copie, Repubblica 137mila, Il Fatto Quotidiano meno di 27mila, il manifesto meno di 10mila. Rispetto a dieci anni fa si tratta del 60 - 70% di copie vendute in meno. Non parliamo degli acquisti del giornale in digitale, perché ai fini della pubblicità solo le vendite delle copie su carta offrono la resa per cui gli azionisti pagano. E i giornali, fino a prova contraria, si reggono buona parte sulla pubblicità. Da questi drammatici dati si capisce perché dal capo dello Stato all’ultimo dei fiduciari di redazione, passando naturalmente per gli editori e gli edicolanti, arrivi ormai quotidianamente un Sos: salvate il giornalista Ryan, e l’intera filiera della carta stampata. Il problema è che senza leggere, sul serio, non un tweet o un post, c’è il rischio di finire in ‘Fahrenheit 451’, il romanzo di Ray Bradbury che descrive una società distopica, in cui leggere o possedere un libro è un reato. E la resistenza allo stato delle cose fa sì che ognuno impari un libro a memoria. Per non arrivare a tanto, non sarebbe male tornare a valorizzare la lettura. Nelle scuole si sono già accorti che l’insegnamento attraverso i tablet non dà la stessa capacità di apprendimento di quanto non facciano i classici libri di testo. Mi rendo conto che queste parole sembrano arrivare da una persona nell’autunno dell’esistenza, o da una romantica conservatrice (in quest’ultima immagine mi riconosco di più). Invece no, io sono social, non solo per diletto utilizzo Facebook, Twitter, Instagram, so cosa è il Seo, l’ottimizzazione per i motori di ricerca, quell’insieme di strategie e pratiche volte ad aumentare la visibilità di un sito internet, e mi do da fare perché i due periodici della Cgil con cui collaboro - ‘Reds’ e ‘Sinistra sindacale’ - siano letti da un sempre maggior numero di persone. Ma certo, quando sfoglio il periodico cartaceo della Fondazione Toscana Spettacolo ‘Il teatro e il mondo’, o la stessa versione cartacea di ‘Reds’, provo un godimento imparagonabile. Sono cresciuta fra i libri, fra i giornali, e con un direttore come Sandro Curzi, che pur conosciuto come direttore televisivo sapeva bene come fare un giornale e come insegnare il mestiere. E ora che ci si interroga sulle fake news, non dobbiamo dimenticare che c’è chi ha sempre sostenuto che l’uomo non sia mai arrivato sulla Luna. Hollywood ha fatto anche un film, Capricorn One, su un finto viaggio su Marte, nell’ormai lontano 1979. Cinquant’anni fa. È di queste settimane la notizia della creazione di un software capace di riprodurre testi e audio credibili nel 90% dei casi, ma che in realtà sono falsi. Farlocchi. Va a finire che, secondo la Reuters, una delle più grandi e affidabili agenzie di stampa del mondo, continua a crescere il numero di persone che spesso, o almeno qualche volta, sceglie di evitare le notizie. Di non leggerle. Perché non si fidano, o non credono che informarsi costituisca un valore per la loro vita. Good night and good luck, buonanotte e buona fortuna, ricordando il bel film di George Clooney contro il maccartismo.


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