Si può essere precari anche con un contratto individuale a tempo indeterminato sottoscritto ormai 18 anni fa. Lo sanno bene le lavoratrici e i lavoratori degli appalti di sanificazione e decoro delle scuole pubbliche. Sembra un controsenso, ma nel mondo degli appalti, dove avviene di tutto di più, è la regola.
Lo scorso 15 ottobre, piazza Montecitorio ha accolto ancora una volta questi lavoratori per l’ennesima giornata di sciopero nazionale del settore. Da oltre vent’anni queste persone con le bandiere in mano si occupano di servizi fondamentali, eppure periodicamente sono costretti a ritrovarsi nella Capitale per rivendicare il diritto ad un lavoro dignitoso.
Le lotte più significative risalgono a sei anni fa, al periodo a cavallo tra il 2013 ed il 2014: scuole e strade occupate per respingere l’irricevibile appalto Consip: quell’ultimo cambio di appalto prevedeva il taglio dell’ottanta per cento dei posti in alcune regioni del Mezzogiorno. Una lotta che si concluse con il mantenimento dell’orario contrattuale, grazie al progetto “Scuole Belle”. Non era certo la prima battaglia…
La platea dei lavoratori che ha manifestato nei giorni scorsi davanti alla Camera dei Deputati risale infatti ai Lavoratori socialmente utili (Lsu) che attraverso progetti di comunali e provinciali, di concerto con il Ministero della Pubblica Istruzione, cominciarono a lavorare nelle scuole fin dagli anni novanta. Quasi tutti Lsu, dunque, o persone che hanno lavorato negli appalti storici di pulizie e ausiliario nelle scuole.
Per gli Lsu, ossia la maggioranza dei lavoratori attualmente impiegati nel settore, la stabilizzazione arrivò solo il 1° Luglio del 2001 per effetto dei decreti interministeriali del 21 aprile. Fu l’ultimo atto di una serie di provvedimenti attuativi risalenti all’articolo 8 della legge 124 del 1999 (dal decreto interministeriale 184/99, al decreto legge 81 del 2000, fino alla legge del 23 dicembre 2000): un lungo iter che definì all’epoca la stabilizzazione di 18.000 lavoratrici e lavoratori, superando la fase grigia e lo stigma dell’assistenzialismo.
Quindi dal 1° Luglio del 2001 tutti gli Lsu furono assunti da imprese, consorzi di imprese e società cooperative individuate dal decreto interministeriale. A tutti fu proposto un contratto di lavoro individuale di 30 ore settimanali, che dopo qualche mese divennero 35 ore: la qualifica individuata fu “operaio pulitore”. Da allora donne e uomini hanno continuato a svolgere un servizio essenziale e hanno permesso la fruizione delle scuole pubbliche, rendendole belle e pulite.
Quel 1° luglio 2001 sarebbe dovuta diventare una data simbolo, il giorno in cui per 18mila persone si metteva la parola fine ad ansie e incertezze dovute al precariato. La precarietà, di fatto, non finì: si trasformò soltanto. È vero gli Lsu diventavano da quel giorno “ex” Lsu, ma la precarietà aveva assunto solo una nuova forma: ora era fatta di cambi d’appalto, procedure di licenziamento, assunzioni in aziende che scaricano sui lavoratori il rischio di impresa. In alcuni casi le ditte non sono state, e continuano a non essere, corrette sul rispetto delle norme contrattuali, primo fra tutti il pagamento della retribuzione. Senza parlare dei mille stratagemmi penalizzanti per il lavoratore in tema di utilizzo di ferie, permessi e banca ore, cassa integrazione e Fis. Lo stesso processo di stabilizzazione finì per creare una frattura tra lavoratori impiegati in mansioni simili, ma a cui sono stati applicati contratti differenti, con retribuzioni, tutele e diritti non equivalenti. Immancabile poi il viaggio di Natale a Roma: viaggio della speranza per protestare, perché immancabilmente ad ogni Legge Finanziaria venivano meno i fondi per rifinanziare un servizio essenziale. Senza contare le lotte quando i finanziamenti tardavano ad arrivare.
Per cui, sì, è vero: si può essere precari anche con un contratto individuale a tempo indeterminato. Noi lavoratori degli appalti di sanificazione e decoro delle scuole pubbliche ne siamo la prova vivente. Al punto da avere due datori di lavoro se l’appalto è pubblico, ossia committente e aziende: il committente è il cliente e quindi ha sempre ragione. Gli unici a subire sono sempre i lavoratori, minacciati di essere trasferiti se la scuola committente non viene accontentata. E fa niente se per riuscire nell’intento si debbano calpestare i diritti.
Oggi siamo, forse vicini ad una svolta. Con la Legge di Stabilità del 2019 il Governo ha deciso di internalizzare il servizio. I dipendenti delle aziende dovranno transitare nei profili Ata a partire da gennaio 2020. Una decisione auspicata, anche perché potrebbe dare risposte alle lavoratrici ed ai lavoratori ed alla qualità del servizio. E finalmente mettere fine ai comportamenti inaccettabili di molte aziende, ristabilendo rispetto delle regole e diritti. Il guaio è che la tanto agognata internalizzazione non sarà per tutte e tutti: è infatti prevista per decreto soltanto per 11.250 unità a fronte dei 16.000 addetti.
Più volte, anche a livello confederale e sempre unitariamente, si è richiesto un tavolo di confronto con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Miur, il Mef e il Ministero del Lavoro. Non è infatti accettabile che un percorso di questo tipo, che può davvero mettere fine ad anni di difficoltà, non sia per tutti i lavoratori convolti ma si concluda con la perdita secca di quasi 5mila posti di lavoro.
Il tavolo di confronto non è stato ancora convocato ed il decreto non ancora pubblicato. Gennaio però si avvicina e le aziende hanno già aperto le procedure di licenziamento collettivo. È l’ennesima volta; speriamo che sia l’ultima. Ma questo nuovo percorso conferma che un lavoratore con contratto a tempo indeterminato può restare un precario. E l’ansia torna prepotentemente a galla, la preoccupazione di essere uno di quei 5mila esclusi da una prospettiva di stabilità lavorativa a lungo inseguita. Ecco perché questo nuovo percorso di internalizzazione non può e non deve di lasciar fuori nessuno. Per questo siamo ritornati alla lotta. E continueremo a lottare, sperando di essere alla nostra ultima battaglia.