Le primarie del Pd sono state meno avvincenti del campionato di serie A. Dirlo alle dieci di sera, a urne chiuse, è facile. Ma fra i tre contendenti Zingaretti, Martina e Giachetti, l’unico che aveva vinto qualche competizione elettorale era il fratello del commissario Montalbano. Maurizio Martina era subentrato a Matteo Renzi dopo il disastroso referendum costituzionale del dicembre 2016, e con lui il Pd era sceso al 18% alle ultime elezioni politiche. Quanto a Roberto Giachetti, alla sua discesa in campo per le elezioni comunali capitoline, i romani avevano risposto votando in massa la pentastellata Virginia Raggi. Nicola Zingaretti invece aveva centrato il suo obiettivo, proprio nel giorno più difficile, diventando governatore del Lazio il 4 marzo 2018. Un milione e ottocentomila iscritti e simpatizzanti nella prima domenica primaverile di questo 2019 si sono messi in fila davanti ai gazebo per scegliere il futuro segretario del Pd. Non pochi, in una stagione particolarmente difficile per il partitone tricolore. E allora diciamolo: riescono meglio le primarie al Pd che le consultazioni sulla piattaforma Rousseau ai Cinque stelle. Gli sconfitti stringono la mano al vincitore, assicurando fedeltà. Potrebbero fare altrimenti? No. E se c’è chi sostiene che ha vinto il candidato con le posizioni più lontane da Matteo Renzi, il confronto televisivo fra i tre contendenti alla segreteria ha evidenziato differenze più di sensibilità che di sostanza. Si apre comunque una pagina nuova per il Pd, che dall’opposizione dovrà affrontare una lunga marcia per essere competitivo alle prossime elezioni politiche. Zingaretti lo sa e lo ha subito detto. Certo, questo delle primarie è stato uno spettacolo diverso da quello imbarazzante offerto appena pochi mesi fa, quando il Pd manifestava a favore della legge Fornero e del jobs act. Parafrasando il titolo di uno dei più bei romanzi di Andrea Camilleri, con protagonista il fratello più famoso di Zingaretti, la forma del Pd è come quella dell’acqua.