Michele Carpinetti: ‘Rosso sabbia’, Padova, Cleup, 2019
“Reds” è quello che in inglese oggi si definisce un “house organ” e che una volta si sarebbe detto un foglio interno all’organizzazione. La maggioranza dei lettori, dunque, sa chi è Michele Carpinetti: parecchi lo conoscono per lo meno di vista e lo identificano al volo, quando con lento incedere elegante, perennemente in giacca, e camicia (bianca) si presenta in ufficio, ad un incontro, ad una riunione. Michele Carpinetti è dal 2013 il responsabile della bilateralità per la FILCAMS-CGIL Nazionale.
Ma Michele Carpinetti è anche un prolifico e poliedrico artista. E, cosa rara nei nostri tempi di pensiero unico e di liquidità sociale, un artista militante. Sceneggiatore, regista e scrittore. Nel poco tempo libero dal 2013 ad oggi ha scritto con altri un saggio su Adele Zara e un romanzo, Caigo, da cui sono stati ricavati un documentario e un film. A quattro anni da Caigo esce ora, per i tipi della Cleup di Padova, Rosso Sabbia. L’accattivante riassunto in quarta di copertina ci parla di tante storie mai raccontate, “tante quanto i granelli di sabbia di un deserto”, e del filo rosso che le accomuna, che lega vite e destini di persone apparentemente lontanissime.
Ho letto il libro, un mese fa. Ho deciso allora che avrei scritto questa recensione, ora, a distanza di tempo, senza rileggerlo, così da allontanarmi dalla “razionalità” e cercare di trasmettere quel che mi sarebbe rimasto nel cuore e nella testa a distanza di tempo. Non so se è corretto, ma mi andava di farlo…
Il racconto è un viaggio nel tempo e nello spazio tra l’arida terra d’Africa e la tranquilla vita quotidiana di un paese delle Dolomiti, cifra di continuità un Italia piccolo-borghese, laboriosa, perbene, ma anche con i suoi piccoli e grandi segreti, a tratti meschina. Mettendo in crisi anche un importante “mito” delle genti di montagna. E poiché il romanzo è un giallo investigativo, è d’obbligo per me di evitare per quel che posso troppe anticipazioni, omettendo per quel che posso la trama, per trasmettervi qualche impressione che tutti voi potrete confermare, approfondire o smentire dopo aver letto Rosso Sabbia.
Vie e strade di metropoli lontane, con il loro odore e i loro colori, ricostruite per un lettore contemporaneo a cui è negato dalla ricchezza di immagini di un mondo globalizzato qualsiasi esotismo e meraviglia, come i boschi e le montagne dolomitiche antropizzate da una presenza umana che le vive oltre la dimensione della cartolina turistica, con un amore straordinario quest’ultime, perché Carpinetti – se qualcuno non se fosse accorto – è veneto 100%.
Dell’ambientazione ho già detto: Africa e Veneto. L’arco narrativo va dal 1935 ai giorni nostri. Se qualcuno di voi ha visto in televisione, un poliziesco procedurale intitolato “cold case” (casi irrisolti) sappia che siamo di fronte ad una morte oscura lontana nel tempo e nello spazio, un caso che qualcuno a distanza di 80 anni dovrà risolvere. Toccherà ad un avvocato, che dovrebbe occuparsi di questioni di eredità, e al suo “gruppo d’investigatori” improvvisati riaprirlo anche nelle menti e nei cuori delle persone. E come in ogni giallo che si rispetti non mancano nuove uccisioni, depistaggi, falsi indizi per coprire la verità in una rete di complicità ed inganni.
Indispensabili e di altrettanto facile lettura le ricostruzioni storiche per permettere al lettore di collocare gli avvenimenti.
La grandezza di un narratore non sta solo nell’intreccio, ma anche nella costruzione di protagonisti, comprimari e ambienti. Carpinetti ci porta per mano prima nell’Africa orientale del passato e del presente, la laboriosa dignità di genti lontana che la storia dovrebbe averci rese vicine e che la cronaca fa sbarcare ogni giorno sulle nostre coste, poi ci trasferisce nello splendore delle “sue” Dolomiti e ci racconta la provincia veneta, il suo quieto vivere, le sue paure, ma anche il suo coraggio e le sue meschinità, le pagine oscure di un passato che aspettano solo di essere disvelate. E mette davanti agli occhi una umanità complessa, confonde ai nostri occhi buoni e cattivi, perché alle volte anche nei cattivi c’è della bontà e permette a ciascuno di noi di immaginarsi mentre legge i “propri” personaggi.
Mentre leggevo mi sono comparsi davanti agli occhi, come possibili volti e “interpreti” di ciò che leggevo: Denzel Washington, Massimo Girotti, Ilaria Occhini, Vincenzo Crocitti, Gastone Moschin. Ogni lettore troverà i suoi, corrispondenti alla propria formazione anagrafica e culturale.
Un romanzo scritto bene, dunque. Ed avvincente. Ho letto il libro (231 pagine di testo!) durante un viaggio da Roma a casa, nel tempo passato in treno e in sala d’aspetto. Più o meno: 1 ora e 35 Roma-Firenze, ¼ d’ora in sala d’aspetto e una ventina di minuti per scendere alla stazione del mio paese. Sono un lettore veloce, ma leggere un libro tutto d’un fiato e senza perdere il filo, non è cosa facile. Ma qui c’è il trucco: la trama avvince, la scrittura scorre e si è curiosi di capire come va a finire, per vedere se si è capito tutto, qualcosa, oppure se si sia toppato.
Rosso sabbia è un romanzo della contemporaneità, anche se ambientato tra passato e presente, sull’Italia di oggi con il suo passato sempre rimosso, terra di migranti senza memoria che si nega ai migranti di oggi, timorosa di mettere in discussione le proprie certezze, di chiese e di campanili, di comunità coese che tendono a chiudersi invece di aprirsi al cambiamento, ma che dovrà fare i conti con tutto, con ciò che è alle spalle, con ciò che è, per essere protagonista consapevole di ciò che sarà.
Rigo dopo rigo, questa consapevolezza emerge nel lettore. Le poche pagine dedicate a trarre la morale della vicenda sono da questo punto di vista, un di più. La costruzione del racconto ha in sé, dalla trama, alla costruzione dei personaggi, una lezione etica “obbligatoria”, unica ed ineludibile.
Una lezione rossa, non come la sabbia che si disperde, ma come la fiducia in se stessi, nei valori di umanità e nell’avvenire.